Xasthur – The funeral of being

Malefic è tornato. La figura-genio del nuovo millennio per quanto concerne il black metal, incapace di starsene con le mani in mano, ritorna sul mercato dopo una manciata di mesi dal miracoloso “Suicide in dark serenity” con il nuovo full-lenght “The funeral of being”. Inutile oramai dire che tale mente si trova nell’assoluta incapacità di sbagliare un colpo, tanto meno di deludere la cerchia esponenzialmente crescente di suoi devoti ammiratori. Anche stavolta infatti il depressive black fa da colonna sonora ad un colossale album irto di acuminati riff capaci di sezionare il cuore in due parti distinte: una, glaciale e sofferente per lo struggente incedere; l’ altra, dolce e sinuosa per le celate e penetranti melodie insite tra nota e nota. Chiusa la parentesi con la Bestial Onslaught, con cui era stato appunto rilasciato lo stupendo MLP succitato, è nuovamente la famigerata Blood fire death a fare da madrina al nuovo capitolo di casa Xasthur: i suoni tornano ora quelli di “Nocturnal poisoning”, il depressive c’è ma in forma meno estrema del precedente lavoro, mentre il cantato di Malefic è come sempre dolorante e presente di rado, saltuariamente. L’avvio affidato a “The awakening to the unknown perception of evil” è un prezioso sigillo che supera i sette minuti, in cui un senso di malinconia aleggia continuamente alterando lo stato d’animo anche della più felice e spensierata creatura. Caratteristica, questa, che perdurerà per tutto il resto dell’album soffermandosi in particolare su “Tyrant of nightmares” (riproposta anche in seguito in versione più breve e rimodellata), un vero e proprio incubo ad occhi aperti perfettamente cesellato nella sua mera ossessività, dolente ed affascinante allo stesso tempo. E se spettacolare è ciò che assistiamo con l’evolversi della lenta e delirante “Sigils made of flesh and trees”, non ci sono parole per descrivere quello che accade nelle due parti di “Blood from the roots of the forest”: la prima è un’intro atmosferica horror-style, la seconda è invece l’apocalisse. Ma, ripeto, a volte è meglio tacere per non sminuire. Poi troviamo altri due intermezzi, dei quali “Bleak necrotic paleness” se ne esce in particolare per la dolcezza emanata dalla lenta melodia che ancora mi trovo impressa nella mente come un ritornello ridondante e piacevole da ricordare. Molto evocativa ed epica è invece “Reflecting hateful energy”, altro immenso brano che segna, prima della già visitata “Tyrant of nightmares” e dell’outro finale, la chiusura dell’ennesimo capolavoro per la creatura Xasthur. Giunto a questo punto non credo di esagerare nel ritenere questa band la migliore formazione black da metà degli anni ’90 ad oggi, tanto che per quanto mi riguarda il monicker Xasthur va ad inserirsi tra quei pochi ma significativi nomi che più di dieci anni fa segnarono in modo indelebile il modo di concepire la musica.