Per la DVS Records esce Element V, il disco di debutto dei Voyager, band australiana formata da cinque elementi tra cui una donna, Melissa Fiocco, che suona il basso. Le coordinate musicali lungo le quali si muove questo quintetto sono quelle del progressive rock, a cui vanno poi aggiunti spunti neoclassici ed atmosfere di fondo decisamente rétro. All’ interno della struttura dei brani, un ruolo preponderante ce l’ hanno le tastiere, che quindi insieme alle chitarre costituiscono il fulcro centrale attorno al quale ruotano le varie composizioni. Per quanto attiene il discorso produzione l’impressione che ho avuto è quello di un suono esile, troppo asciutto, il cui effetto più evidente è una sorta di contrazione degli strumenti con uno smorzamento ed una attenuazione dell’ impatto sonoro, in particolare delle chitarre. La nota dolente di questo album si chiama Daniel Estrin, il suo cantato, infatti, per quanto inusuale e “diverso” ricorda addirittura quello di alcuni vocalists della scena pop inglese degli anni ’80 (che orrore!), dopo un po’, per la verità, uno ci fa pure l’abitudine ma in generale è dura…! Ad ogni modo, i Voyager riescono a scrivere delle belle canzoni molte delle quali si trovano nella prima parte del disco, una di esse si intitola To The Morning Light di cui vanno segnalati il bel riff iniziale e l’accattivante chorus. In The Eleventh Meridian al tema iniziale prodotto dalle tastiere fanno segiuto degli ineccepibili interventi di chitarra con un riff che, alternandosi perfettamente al cantato di Estrin, quasi si fonde con esso. Interessanti richiami alla musica classica sono presenti in Cosmic Armageddon Pt. II e Monument, quest’ ultimo è un brano dai ritmi serrati, seppur con qualche rallentamento, in cui i fraseggi eseguiti da chitarra e tastiera sono rapidissimi. Una nota stonata all’ interno del disco è rappresentata dalla traccia numero dieci, The V Element, qui, quelli che prima erano sembrati dei semplici strappi alla regola, vale a dire l’uso di qualche suono campionato, ora diventano la norma e costituiscono la base di quello che può essere considerato a tutti gli effetti un vero e proprio brano dance. Molto bella, invece, la fusione operata dalla band all’interno di Kingdoms Of Control tra suoni tipicamente rock e sonorità orientali, un esperimento pienamente riuscito. Non si può dire la stessa cosa probabilmente dell’opera presa nella sua interezza, personalmente avrei preferito un altro tipo di vocalist dietro al microfono e magari sarebbe stato bello sentire delle chitarre più incisive, dotate di maggiore aggressività, ho apprezzato molto invece gli spunti neoclassici e in questo senso il lavoro svolto alle tastiere è più che soddisfacente. Di sicuro qualche appassionato di prog-rock potrà essere interessato ad un album di questo tipo, se ne consiglia però l’ascolto prima di un eventuale acquisto.