Vintersorg è uno di quegli artisti che a ogni uscita discografica mandano in subbuglio un po’ tutta la cosiddetta ‘stampa specializzata’, tantochè è facile venir ammaliati dalla assoluta particolarità delle sue composizioni, salvo poi ricredersi, dopo qualche settimana e un paio d’ascolti in più, finendo inevitabilmente per catalogare ogni sua opera come l’ ennesimo buon disco a cui manca qualcosa di troppo. Sfido io a trovare un album di Vintersorg che sia stato stroncato in toto dalla critica della carta stampata o delle webzine, o a individuarne uno che, a tutti gli effetti, ad anni dalla sua uscita sia riconosciuto all’ unanime come un vero e proprio capolavoro del suo settore. Escludendo il redditizio “Till Fjalls”, per il quale spenderei tutt’ora parole enfatizzanti, ammetto di essere stato colpito al primo ascolto da tutti gli altri album prodotti da Andreas Hedlund (eccezion fatta per l’ EP di debutto, di cui ammetto di non essere in possesso), per poi trovare incompleto il pur buonissimo “Odemarkens Son”, a mio avviso dotato di una scaletta discontinua e ricca di cali di tono, e confusionari i successivi “Cosmic Genesis” e “Visions from the spiral generator”, dischi figli di una voglia di cambiare improvvisa e repentina, che hanno portato alla definitiva snaturalizzazione del sound originario della band proprio con l’ ultimo “The focusing blur”, che in teoria assolverà il compito di consacrare il secondo corso stilistico fra quelli intrapresi dal gruppo scandinavo. Diciamo che innanzitutto questo nuovo platter affina e perfeziona le idee gettate nella mischia, evidentemente con troppa fretta, dai due precedenti ellepì: trattasi di un lavoro moderno, eterogeneo, ed in cui ogni canzone contribuisce a dilaniare la personalità del disco, in quanto ogni traccia ne assume una a sè stante, quasi del tutto propria. E ci vorrebbe una track-by-track per descrivere adeguatamente quest’ album, ma parliamo solamente dei punti salienti… L’ anima estrema di Vintersorg appare soltanto a tratti, con i blast-beat ed i riff estremi, misti alle solite reminiscenze Folk, di “The essence”, sicuramente il pezzo più ispirato dell’ intero lotto, oppure con il reprise finale di “Matrix Odyssey”, che va a pescare la melodia iniziale della song pur creando brusche linee di frattura con gli altri pattern presenti nella canzone. Poco bene, considerando che vi presenziano persino quei riff maideniani che già gli In Flames hanno consacrato, nel Metal nordico, durante i Nineties. Poi, il resto del disco è ugualmente un rimasuglio di molteplici influenze: tastiere di derivazione settantiana, Hammond in particolare, roba che già i Solefald ci hanno propinato per anni ed anni e che dubito possa risultare “fresca” oggi, in ambiti Avantgarde Metal, e poi linee vocali che svariano su 5-6 stilemi diversi, dal growl forzato di “Curtains” al pulito solefaldiano, sino ad arrivare all’ immancabile e tipico dualismo col quale Vintersorg da sempre ci introduce il binomio pulito-scream. Poi, tastiere innovative e moderne, svisamenti di basso che prendono in mano la situazione (“Sharpen your mind tools”) e tanto altro ancora. Ora, per concludere: il problema principale che affligge Vintersorg, e un po’ tutta la scena Avantgarde in generale (i Winds a mio avviso sono un esempio lampante di quanto questa scena sia immersa nei problemi fino al collo), è sempre il solito… Vintersorg vuole grottescamente dimostrarci che la sua ampia cultura musicale, ed un manipolo di musicisti / mercenari di quelli che hanno suonato un po’ con tutti (Mickelson e Di Giorgio avranno avuto, complessivamente, una decina-quindicina di band), bastano a comporre bei dischi. E lo “specchietto per le allodole” c’è, e si chiama “The essence”, classica ottima song, peraltro molto immediata, posta ad inizio scaletta in modo tale che chi si fa ascoltare il disco in negozio cada subito nel tranello dell’ acquisto “a scatola appena aperta”. Diciamolo: “The focusing blur” è l’ennesimo disco Avantgarde dove ogni canzone suona in modo diverso dalle altre, e da cui vien fuori tanto fumo, ma purtroppo anche poco arrosto. E io, sinceramente, quando al quarto ascolto di un disco che ha una scaletta di dodici pezzi mi rendo conto che effettivamente solo l’ opener (intro esclusa) è realmente valida, passo oltre. Purtroppo quando ascoltai “Visions from the spiral generator” fui colto dall’ entusiasmo: stavolta ho cercato di essere più attento e paziente, ed i risultati sono stati drammatici. Disco appena sufficiente, di maniera, e che sottolinea i mille difetti di una band decisamente sopravvalutata, e condotta da un artista che non riesce a stare per quindici minuti consecutivi senza comporre qualcosa di nuovo (cito Borknagar, i defunti Otyg, Vintersorg, e gli Havayoth di Marcus Norman), quando potrebbe benissimo concedersi una piccola e strameritata pausa, e tornare a rendere di più, qualitativamente parlando, proprio come ai vecchi tempi, vedi 1998, all’ epoca dell’ ottimo “Till Fjalls”. Un’ ultima puntualizzazione: “The essence” rende benissimo idea di quanto Vintersorg potrebbe comporre belle canzoni puntando su patterns semplici, arpeggi minimali e tre-quattro riff. Il resto del disco invece indica quanto 10-12 riff a canzone e 7-8 stili musicali mescolati assieme equivalgano a confusione di idee e scarsa personalità, il tutto seguito da canzoni acerbe, appena sufficienti, talvolta indigeribili (“A sphere in a sphere” e “Star puzzled”, tanto per nominarne due). Che sia il caso di puntare sulla prima soluzione anzichè sulla seconda? La stessa domanda è rivolta a tanti altri artisti del “Metallo dotto” che tanto è in voga in questi ultimi anni: Winds, Solefald, Ephel Duath, e tanti altri ancora.