Vhaldemar – I made my own Hell

La Arise records è in continua crescita: dentro i nostrani Highlord, che finalmente godranno di una degna promozione, e dentro anche gli Asperity e tanti altri ancora, tutti quanti ad arricchire un rooster dove però la qualità non corre a pari passo della quantità numerica. In passato ho già recensito gruppi come i Dark Moor, oggi l’ombra di ciò che la band era nel periodo – il migliore – con Elisa C. Martin, oggi frontgirl dei Fairyland, in formazione, poi gli Axenstar, i Celesty, i Freternia, i succitati Fairyland (uno fra i principali esponenti europei del Power sinfonico a’la Rhapsody), gli Steel attack, gli Arwen e, presto, anche i Red wine. Okay, adesso andate nella sezione “Recensioni”, aprite un po’ di recensioni delle sovraelencate formazioni, e… non avete notato niente? La media voto delle mie recensioni relative a uscite Arise records è terribilmente bassa. Vero, eccezion fatta per “The gates of Oblivion” dei Dark Moor, per un sei politico al debut degli Arwen e per un’ altra sufficienza strappata a malapena dai Freternia con “A nightmare story”, devo ammettere che dalle parti di MetalManiacs Arise records ha sempre avuto la vita difficile. Perchè? Sinceramente, perchè ritengo che le scelte dell’ etichetta in questione siano state sino ad ora piuttosto deludenti. Eccezion fatta per qualche sorpresa, ovviamente. Sembra quasi che la Arise abbia puntato più a raccimolare nomi dall’ impatto sicuro, act pronti a sfornare dischi dalle vendite sincere, ma sicure, piuttosto che a rischiare qualche volta pur di arrivare a poter presentare un rooster non dico fantastico, ma decente, e comprendente di qualche nome illustre o di giovani leve dal bell’ avvenire. E giovani leve sono anche i Vhaldemar, al secondo album su Arise records con questo “I made my own Hell”, successore del pessimo “Fight to the end” del 2002. Arise stavolta assicura, tirando fuori una mezza verità: “100% energy, 100% Heavy Metal”. Non capisco perchè la gente insista a celare dietro ad altre etichette il termine Power Metal: sembra quasi che qualcuno si vergogni a suonarlo e voglia far credere alle masse che non si tratta di ciò. Non facciamo nomi, anzi, you know who you are… I Vhaldemar suonano uno scontato Power Metal influenzato nel chitarrismo di Pedro J. Monge da Yngwie J. Malmsteen, ovvero tutto quel che band come gli Harmony hanno di recente detto e ribadito, ma soprattutto dagli onnipresenti Stratovarius del post-1995, con tanto di cori epici, un vocalist con uno stile vocale sporco – complici le proprie mancanze, forse – e dissestato ed una sezione ritmica ridotta alla solita batteria, ovviamente fatta a pezzi dalla produzione (praticamente non v’è traccia di vita nelle linee suonate da Edu Martinez: pare che Pro Tools abbia fatto tutto al suo posto), in quanto il basso di Oscar Cuadrado è praticamente del tutto assente o quasi (e si limita a riproporre ossessivamente le linee di chitarra ritmica del singer Carlos Escudero). Tutto qua: pezzi veloci come l’opener, nonchè title-track “I made my own Hell” (col refrain “Master of the universe and…” sinceramente troppo ripetuto), in cui un lead finale a’la Blind Guardian è comunque lodevole; poi simil-Heavy Metal songs come “Breaking all the rules”, ennesimo penoso caso in cui una Power Metal band (il Power melodico attuale, naturalmente, ed europeo) prova a suonare uno stile che non rientra nei suoi attributi attitudinali, steccando la prova nonostante la presenza di discreti riff acceptiani; e naturalmente, i classici “lentoni” atmosferici, vedi la deludente “Old King’s visions (part two)”. In “I made my own Hell” c’è tutto quel che un disco di moderno Power Metal richiede: produzione perfetta, con la solita doppia cassa triggerata sino alla disperazione e col basso messo in un angolino, poi un vocalist in primo piano assieme alle chitarre, e tanta accademia. Sanno suonare, sanno fare ciò che altri da oltre un decennio fanno meglio e, in definitiva, no… non siamo di fronte ad una buona sorpresa.