Stratovarius – Elements part. I

Dal 1996, puntualmente, ogni nuova uscita correlata dalla presenza del nome degli Stratovarius sulla copertina suscita attese snervanti e degne delle migliori releases Metal di livello internazionale. Sino ad “Infinite”, lavoro poco più che modesto che vide la luce nel 2000, attendere un qualcosa da Timo Tolkki e soci era stato pressochè sinonimo di sicurezza: “Episode” e “Visions” non erano poi così distanti nel tempo, e nonostante “Destiny” avesse segnalato cenni di calo compositivo riguardanti il songwriting del quintetto finlandese, nè la sostanza nè i responsi da parte dell’audience metallica europea erano cambiati. Fattostà che ci ritroviamo nel 2002, con una band suddivisa in tre tronconi di cui uno solo riguarda prettamente gli Stratovarius, ed i restanti due i solo projects di Timo Tolkki e dell’omonimo compagno di line-up Kotipelto: continui processi di composizione, dischi in uscita con una frequenza quasi disarmante, e l’occhio di riguardo del pubblico, ancora attento come una volta, si è stavolta macchiato di un velo opaco di critica che ha praticamente dimezzato la fiducia che, una volta, era riservata alla band in questione in proporzioni persino eccessive. “Infinite” non aveva di certo aiutato Tolkki e compagnia bella a bissare i capolavori degli anni precedenti, e l’inutile release di “Intermission”, addirittura, sembrava un parto penoso di una macchina guasta ed incapace di tornare a funzionare come ai vecchi tempi. La fine dell’ Era d’oro? La risposta sarebbe stata ‘si’ se una qualsiasi persona, dando un’occhiata alla situazione in cui di recente la band era incappata, si fosse accorta dei vari annunci relativi al periodo di riposo al quale la band aveva inneggiato, non mantenendo i patti in un secondo luogo, e proponendo due dischi solisti dal valore non effimero e brillante come “Hymn to life” e “Waiting for the dawn”. La risposta muta in un secco ‘no’ dal momento in cui la band, approdando alla prestigiosa corte di Nuclear Blast, ha cessato il respiro di tutte le voci che aleggiavano attorno ad essa annunciando la produzione futura di “Elements”, lavoro che, inaugurato dall’uscita della sua prima parte, inaugura in maniera contradditoria ma redditizia questo 2003 discografico già griffato da uscite di buon livello come i nuovi Lost horizon e Dragonforce e, sul rovescio della medaglia, macchiato da una prova non ottimale come quella offerta dai Kamelot col loro recentissimo “Epica”. Bando alle ciance – finalmente – e si passa alla descrizione di “Elements part. I”. Chi di voi, con aria sospettosa, reputerà che non ci sia nulla da dire su di un nuovo full lenght degli Stratovarius, troverà da un lato pura ragione e pronte smentite. La sostanziale maturazione del sound degli Stratovarius, in “Elements part. I”, avviene tramite Jens Johansson: le sue linee di tastiera, assai invariate sull’uso delle sue consuete scale di matrice neoclassica, hanno subito importanti transizioni sull’effettistica, essendo i suoi suoni più canonici stati sostituiti da impostazioni di chiaro stampo sinfonico, invocate dalla presenza su disco di un’intera orchestra in collaborazione col quintetto. La band è sempre sè stessa: Kotipelto appare in gran forma, più duttile e versatile rispetto al Timo che aveva inciso le linee vocali di “Infinite” ed “Intermission”, e più emozionale, anche se spalleggiato dalle sostanziose linee corali prodotte dal coro che, su “Elements part. I”, ha diretto Riku Niemi. Semplificatissime e mai caratterizzate da spunti di inventiva le linee di batteria di Jorg Michael, la cui lancetta si muove con la medesima precisione di sempre senza suscitare la carica e l’effetto sorpresa che ogni sua partitura portavano con sè ai tempi in cui il drummer militava nei Thrashers tedeschi Mekong Delta. Un peccato. Del resto, anche i pezzi del lavoro non sono affatto continui: l’ up-tempo “Eagleheart” apre il disco in maniera deprechevole, quasi suicida, portando alla luce una traccia – peraltro il primo singolo estratto da “Elements part. I” – che nulla dice in più rispetto a pezzi già di per sè non trascendentali come “Hunting high and low”, ma che abbassa sostanzialmente i livelli di caratura qualitativa riscontrabili nello scorso e succitato singolo; “Soul of a vagabond”, anzichè rimediare, incita ancor più alla manifestazione della catastrofe: pomposo il suo incedere, ben strutturate le parti sinfoniche, ma i suoi sette minuti e mezzo di durata non aiutano certo la song ad acquisire longevità. Mani sui capelli, e si va avanti. Per fortuna, cambiando strada: le spente idee della formazione, all’improvviso, riacquisiscono vitalità su “Find your own choice”, classica Stratovarius fast-track d’ottima caratura, non buona sui refrain quanto sul fantastico riff che Timo Tolkki ha scelto per le ripartenze ritmiche di cui essa è dotata; “Fantasia”, dal canto suo, onora il proseguimento della tracklist con dieci minuti di tutt’altro che noiosi fraseggi bilateralmente scanditi: la prima metà del pezzo concentra più inventiva ed originalità di quanta ce ne sia su tutto il resto del disco, quindi, successivamente, arrivano la pesantezza, i riffs groovy, ed un Kotipelto sempre più in forma. Giudicare questo disco in questo momento dell’ascolto sarebbe roba da pazzi. Ed “Elements part. I” si fa persino bello e sgargiante poco dopo, quando la velocità e la cantabilità di “Learning to fly” impongono il pezzo in alto fra le candidate per il titolo di “Black diamond” del 2003. Indubbiamente, uno degli apici compositivi del lavoro. Inspiegabilmente, sul più bello, gli Stratovarius inciampano nella propria ingenuità, mancando di resistere alla tentazione di proporre il solito brano strappa lacrime di turno, stavolta intitolato “Papillon”, farcito da una componente strumentale mostruosa ma da sezioni che trasudano noia; segue il pezzo una dimostrazione di pura autocelebrazione: l’inascoltabile “Stratofortress”, esaltazione strumentale totalitaria del neoclassicismo a cui tanto Tolkki è affezionato, e sul quale egli spadroneggia con un solismo efferato sulla velocità, ma che comunica assai poco in altri termini di misurazione. Poi, c’è il tempo di concludere male un disco efficace solo nella sua parte mediana: “Elements”, la title track, si apre all’insegna dei cori epici ed ariosi tanto cari ai nostrani Rhapsody per poi dilungarsi in dodici minuti di pazzia nel mezzo dei quali nessuna nota pare meritare cenni positivi, mentre la conclusiva “A drop in the ocean”, si manifesta come una ballad di media caratura, nè più, nè meno. “Elements part. I” è sicuramente il prodotto più ambizioso mai composto dagli Stratovarius: strumentalmente una sfida che i cinque musicisti finnici hanno lanciato sui propri nomi, in sostanza un buon disco che, pur superando il precedente ellepì “Infinite”, non intacca neanche in maniera impercettibile i picchi di qualità e di godibilità che dischi genuini e tecnicamente più semplici come “Dreamspace” riuscivano a conferire all’ascoltatore. Tuttavia, una release – questa – che prova per l’ennesima volta la classe e la maestria di cui il combo scandinavo è da anni ed anni dotato. L’acquisto a scatola chiusa è consigliato ai soli fans, per gli altri, invece, un ascolto preliminare è consigliatissimo.