Steel attack – Predator of the empire

Devo ancora capire se l’obiettivo di Arise records è quello di accumulare un numero di formazioni più alto possibile nel proprio rooster, o se la qualità rientra fra i requisiti necessari quando i membri del suo staff valutano e scandagliano le band che richiedono di farvi ingresso. Mettendo da parte questo problematico dilemma, sottolineo il mio gran rispetto nei confronti di una piccola porzione del rooster di cui questa oramai celebre label iberica è fornita: mi riferisco in particolare ad Arwen, Highlord e Dark Moor, pur nutrendo una certa attenzione nei confronti degli interessanti ma pur sempre immaturi Freternia. Detto questo, devo drammaticamente sottolineare il fatto che gli ultimi dischi in studio di Celesty ed Axenstar si sono rivelati come dei clamorosi flop. Ed ai loro, si aggiunge quello degli Steel attack, forse il caso più indecente ed eclatante fra quelli citati poco sopra. Se il principale problema di Celesty ed Axenstar era stato il proporsi con mezzi assolutamente impropri, coadiuvato pertanto da un regime qualitativo nettamente insufficiente, viene assolutamente da domandarsi come gli Steel attack possano essere finiti su una label che, come la Arise, ottiene una promozione così accentuata in Europa. “Predator of the empire”, in proprio favore non ha neanche l’attenuante del ‘primo lavoro’, fattore che spesso viene accompagnato dagli aggettivi di turno ‘immaturo’ e ‘affrettato’: trattasi della terza uscita discografica di questo quintetto approdato in tempi recenti da AFM – che giustamente s’è ben guardata dal rinnovar loro il contratto – ad Arise, una release inconsistente su ogni piano che vede latitare i cinque musicisti svedesi sia per il livello qualitativo dei pezzi, decisamente mediocre, sia per la mancanza di adeguati mezzi propri. Non che la tecnica di base manchi. Per carità, le due ‘asce’ John e Dennis lavorano in maniera affabile e precisa, con una dedizione maniacale che porta alla luce ritmiche mature e possenti nonchè ben valorizzate dalla produzione, quest’ultima piena e caratterizzata da suoni grassi ma non eccessivamente moderni. Purtroppo, il peggio del peggio viene dal singer Dick, che nonostante l’imponente uso di filtri correttivi relativi alle tracce vocali, insiste troppo sullo sfruttare una azzardata estensione che di certo egli non possiede. Appiattendo poi ulteriormente la propria prova canora a causa del lungo incedere sui toni medio-alti. Poi, ci si mette una sezione ritmica al di sotto della media, assai indecente per un combo Power-Heavy come quello degli Steel attack. E nonostante un avvio quasi discreto, culminante in meglio con la valida “The darkness” (dove sono più gli intermezzi strumentali a brillare, a dispetto di strofe e refrain, ovvero tutto ciò in cui compare il Dick di cui sopra) a seguito di due tracce – quelle iniziali – dal valor medio, il disco crolla subito dopo, con una “Point of no return” in cui le fasi cantate diventano persino fastidiose e prolisse. Poi ci pensa “Heavy Metal God”, pezzo in cui Dick capisce finalmente che i toni medi esistono: nonostante questo, il brano si rivela piatto e pacchiano. Quanto segue, francamente, non è degno di nota. Un Power-Heavy debole, macchiato da soventi sterzate Speed ottantiane e da una prova – quella offerta dai musicisti – tutt’altro che impeccabile. L’ennesimo disco pre-confezionato sul quale Arise ha messo le proprie capienti mani troppo in fretta. Ma soprattutto, la riconferma dell’alto tasso di inflazione produttiva in campo Power europeo. Che sia l’ora di smettere di far firmare contratti a chiunque?