Da dove potrà mai provenire una formazione dalle forti influenze di Morbid angel e Suffocation? Dalla Francia, ovviamente (?!). Scherzi a parte, i Solekahn raggiungono quota due full-lenght lavorando all’ esatto opposto di molte altre band, ovvero prendendo le cose con estrema calma e senza farsi prendere dalla ossessionante mania di rilasciare dischi su dischi; non a caso il primo Natale del trio attualmente formato da Khaos, Arnim e Cedric è datato 1994. Sotto queste ipotesi tutto ci sarebbe da aspettarsi tranne che un prodotto tirato via, tanto che la maturità in fase di composizione ed una certa personalità nell’ esporre le proprie idee compensano il fatto di non aver inventato niente di nuovo. Questa personalità, non essendo dunque basata su nuovi e spiazzanti canoni, fuoriesce nel sentire un disco di quasi un’ora che non si intimorisce nel lasciare il tutto a tempi costantemente pacati, creando qualcosa che non si basi solo sulla velocità e sulla brutalità come accade quasi sempre nel death, ma che si mantenga su ritmi pacati ed atmosferici per ricreare un continuo tono cupo, malsano, quasi surreale. Come per i Sadist di “Above the light” si assisteva alla ‘pachidermizzazione’ degli Slayer realizzando così un capolavoro di sofferenza interiore, in questo caso le chitarre dei Morbid angel sacrificano l’immediatezza in favore di una musica più riflessiva e penetrante, anche se con risultati ben distanti dal succitato gioiello italiano. Mentre “The great divider” terrà a distanza i decisi sostenitori di violenza, velocità e scorrevolezza, la sua presenza sarà invece di grande aiuto per chiunque necessiti di sonorità sporche e grezze senza abbandonare la componente introspettiva; forse anche per questo la registrazione è granulosa anziché essere pulita come il death richiede per rendere al massimo. I tre di Strasburgo hanno creato quindi un album di difficile apprensione che richiede molta pazienza, in particolar modo in occasione del brano di chiusura – “A stream” – il quale, attraverso arpeggi puliti riconducibili a gruppi doom seguiti da tempeste di violenza, si impone come un mattone di sedici minuti a tratti insostenibile che vorrebbe racchiudere la sostanza delle nove tracce precedenti, diventandone invece un prolisso riassunto. Proprio per questo “The great divider”, nonostante gli spunti più che promettenti e le grandissime doti in fase di songwriting, non riesce a spiccare il volo: se solo si fosse concentrato maggiormente il tutto, tralasciando futili elaborazioni e rendendolo meno discorsivo, ‘l’ascoltabilità’ ne avrebbe di certo guadagnato. E il voto sarebbe stato ben più alto.