Slayer – Hell awaits

Etichetta: Metal Blade

Non so se sia meglio trattare “Hell awaits” su “Under a thrash attack” o se risulti più adatto alla situazione catalogarlo nella categoria “Underrated”, visto lo scarso peso dato ad esso da moltissimi Slayer fans a favore di lavori come i più recenti “Season in the abyss” o “South of heaven”. In ogni modo, procediamo: “Hell awaits”, a mio avviso, si presenta come un’autentica dimostrazione di superiorità messa in atto dai quattro “assassini” Californiani, grazie alla capacità, che la formazione mostrò a tutti nel 1985, di saper plasmare perfettamente un genere, quello del thrash metal estremo, che ancora andava cercando il suo miglior assetto stilistico. Nulla stona, se non la produzione di Brian Slagel e Bill Metoyer (il suono è pessimo anche se confrontato con il successore “Reign in blood”): la band mette qui in atto solo sette pezzi, che in una durata complessiva che non raggiunge i quaranta minuti mostrano un livello di qualità espressiva sino ad allora raggiunto da pochi. Araya & co. giocano ad allargare gli orizzonti del metal estremo, ed in una scena dove suonare al limite significava proporre un thrash lineare, piatto, monotematico (vedi Sodom, Bathory, Venom), i quattro riescono a dar luce ad un seven-pieces fantastico, irraggiungibile per l’epoca d’uscita. Araya, fra rari acuti e soventi escursioni nel “grattato”, si mostra carismatico e nero come un mare di pece, mostrando le uniche reminiscenze della Nwobhm (tanto amata e proposta nel sound di “Show no mercy”) proprio con i suoi giri di basso tortuosi; il solismo di Hanneman e King, mettendo da parte definitivamente il metal classico, si volge del tutto (o quasi) all’estremismo sonoro senza compromessi particolari, ed il drumming di Dave Lombardo, grazie all’aggiunta dell’uso del doppio pedale (assente in “Show no mercy”), si fa multidirezionale e più maturo. Il disco si apre con le litanie di “Hell awaits”, caratterizzate da quell’espressione, “Join us”, che ripetuta al contrario ha alimentato la forte attitudine malvagia della band americana. A seguire, capolavori: la title track, la malata “Kill again” (indimenticabili gli isterismi vocali proposti da Tom Araya nel refrain), e poi pezzi estremi come “At dawn they sleep”, “Necrophiliac” o “Praise of death”, dove la band, nel sound, anticipa di netto la svolta death metal che di lì a poco si sarebbe presentata imponendosi sul thrash. Anche le conclusive due tracce del lotto (“Crypts of eternity” ed “Hardening of the arteries”, quest’ultima presentante un ritorno ciclico all’avvio del disco sul suo finire) sono validissime. Un capolavoro, non ai livelli della perfezione di “Reign in blood”, ma pur sempre un esplicito esempio di quanto siano stati importanti gli Slayer nel corso degli anni.

Voto: 9

Dark Mayhem