Sacred steel – Slaughter prophecy

Sacred steel. Un nome che rispecchia al cento per cento l’identitò musicale assunta nel corso degli anni dalla band più incomprensibile e bistrattata del ramo più classico dell’heavy metal. Dopo la mediocrità dei primi album, per alcuni totalmente ricollegabile al bizzarro e tutto fuorchè tecnico stile canoro del singer Gerrit Mutz, a tratti quasi accostabile agli stilemi proposti dagli Agent steel. la band è venuta ad affiorare prepotentemente alla superfice con il possente e valido “Bloodlust”. Il cantato era migliorato (sebbene rimanesse pessimo ad ogni tentativo di arrivare su tonalità alte), la band si mostrava al pubblico nettamente maturata e decisamente più potente rispetto a quella del primo corso, ma la sensazione era ancora quella che il passo decisivo, i Sacred steel, dovessero ancora compierlo. Ebbene si, in un certo senso questo passo potrebbe chiamarsi o, se preferite, “intitolarsi” “Slaughter prophecy”. Le vesti basilari della band si presentano in qualità di una linfa maturata col tempo, ed arricchita da elementi nuovi ed interessanti che mi accingo a presentarvi: dopo un’ intro contestualizzante caratterizzata da una recitazione dalla contenuta durata, la furia dei Sacred steel si abbatte sull’ascoltatore sin dai primissimi secondi della song d’apertura, la title track. Essa, quasi mostrando una certa voglia di esporre da subito gli elementi “controcorrente”, si avvia con un riff solenne ma granitico, quindi, i growl vocals di Mutz accompagneranno le sue furiose note di lì alla fine. Sorpresa, quella dell’inserimento di così sorprendenti linee canore, che mi ha lasciato sorpreso in positivo, anche se l’esperimento si limiterà a questa song ed a brevi inserimenti sparsi qua e la’ nel disco. Da “Sacred bloody steel” in poi compaiono infatti i sacred steel che già conoscevamo: trionfanti, epici, qualitativamente bilanciati dal netto miglioramento tecnico di Mutz (perlomeno nelle parti su toni bassi) e dal netto e deciso incattivimento del sound. Il combo sprigiona uno dopo l’altro colpi ben assestati, e così si passa per brani devastanti come “Faces of the Antichrist” a perle contenute in perfetto stile mid-tempo quale la bellissima “Lay me to the grave”. “Crush the holy, save the damned”, bonus track che apparirà soltanto sulla versione di accompagnamento al lancio del disco (limitata e, presumibilmente, in formato digipack), è un altro episodio di grande valore, dove Mutz trova un’identità canora mai sbilanciata o rea di voler compiere il passo più lungo della gamba. In definitiva, un marcato passo in avanti rispetto al precedente e sufficiente “Bloodlust”, ma soprattutto una ragione valida per avvicinarsi ad una band che, in questi anni, ha ricevuto più critiche in eccesso che elogi in relazione al suo più che sufficiente operato. Questo è il disco della loro consacrazione, non privo di pecche, vedi le linee vocali che sicuramente molti non digeriranno, ma indubbiamente un lavoro che si assesta su livelli qualitativi sufficienti a consigliarne l’acquisto ai patiti dell’heavy metal più intransigente e puro…sperimentazioni a parte.