Probot – Probot

Quella di Dave Grohl è una delle icone più interessanti e misteriose che il Rock abbia partorito negli ultimi quindici anni, tantochè ad ogni uscita discografica che porti il suo nome stampato nella relativa line-up di realizzazione, attorno ad essa si crea un alone di curiosità degno delle release più attese e di rilievo. Solo che nei Queens of the stone age la responsabilità non esercitava, su di lui, un eccessivo peso, in quanto i riflettori erano puntati altrove, nonostante la mossa di inserire Grohl abbia fatto il suo lavoro sul lato vendite. Ed alla luce dell’ ultimo e poco esaltante disco dei Foo Fighters, lontano anni luce dalla qualità eccelsa di “The colour and the shape”, dal progetto Probot era dunque lecito aspettarsi tanto. Ma con qualche timore e dubbio. I Probot vengono dunque annunciati un sacco di tempo fa come la ventura band Metal di Dave Grohl, ricca di ospiti, di collaborazioni, e spontaneamente viene da pensare che il tutto nasca anche con un sacco di idee di fondo. Ed alla base invece c’è un qualcosa di semplice, ed allo stesso tempo fantasioso. Prendete undici canzoni, intro compresa, e mettete in ognuna di esse un ospite alla voce. Fate suonare il tutto a Dave Grohl, con l’ eccezione di qualche apparizione strumentista in più, vedi quella di Kim Thaiyl dei Soundgarden su “Sweet dreams” o quella di Matt Sweeney degli Zwan, ed il risultato qual’è? In ogni canzone, nel settanta/ottanta per cento dei casi, appaiono evidenti richiami alle band madre di cui presenzia il succitato ‘ospite’. Carina come idea? Per me sì, contando oltretutto il fatto che i Probot nascono come tributo, da parte di Grohl, nei confronti degli artisti che lo hanno cresciuto e formato nel corso degli anni. Lui dice “Metal”, e su questo avrei perlomeno parzialmente qualcosa da ridire: diciamo che “Probot” è un disco sostanzialmente Rock, dalle tinte fortemente sabbathiane, con un’ attitudine Punk che gronda da ogni nota, distorsioni pesanti come macigni che potrebbero far pensare allo Stoner, il quale a tutti gli effetti presenzia come sostanziale influenza, e tanto Metal, proposto sotto svariate ottiche e forme, soprattutto nei suoni, e che finalizza dunque al travestimento metallico di tutto il Rock che è alla base di “Probot” e, evidentemente, del curriculum stilistico di Grohl. E, tanto per ribadirlo, vi ricordo che ogni canzone quasi sempre assume l’ ossatura delle band da cui proviene il ‘collaboratore’. Tranne svariate eccezioni. Dunque, non aspettatevi un disco con uno stile ben delineato: di ricorrente c’è la produzione, molti richiami ai Voivod di “Angel rat” e dell’ omonimo disco del 2003, e poco altro. Dunque, andando per ordine: un Metal pesante, oscuro, dinamico, e con soventi accelerazioni che potrebbero far pensare ingannevolmente al Thrash, è tutto quel che si presenta in “Centuries of sin”. Per intenderci, il pezzo con Cronos dei Venom alla voce e, nell’ occasione, anche al basso. Ed anche uno dei più riusciti dell’ intero lotto. Poi “Red war”, coi Sepultura di “Chaos A.D.” e “Roots” che fanno capolino, e con suoni che paiono provenire da quegli out-take (principalmente cover) che la Roadrunner ci ha rifilato, anni orsono, in “Blood rooted”. Naturalmente, con Max Cavalera dietro al microfono, non proprio ispirato ma comunque bravo nel rispolverare una certa grinta che da tempo gli mancava. Poi Lemmy e soci, in quella “Shake your blood” che potrebbe essere benissimo uno scarto delle registrazioni di “We are Motorhead” e dunque dei Motorhead più pesanti, e con un feeling quasi metallico dettato più che altro dalla produzione e con un Lemmy messo purtroppo in secondo piano dal mixaggio. Poco male. E se “Access Babylon” e “Silent spring” si rivelano due autentiche mattonate sul volto, complice l’apporto di Mike Dean dei Corrosion of conformity nella prima e di Kurt Bretch del Thrash-Core act D.R.I. nella seconda, la successiva “Ice cold man” rispolvera i Cathedral di “The ethereal mirror”, e forse anche “Endtyme”, accompagnata dalla presenza del fenomenale Lee Dorrian dietro al microfono. Dopo “The emerald law”, col suo Heavy/Rock vagamente tinto di Doom, e dunque con l’icona Wino Weinrich alla voce, viene il difficile: “Big sky” è al contempo il brano più sorprendente e più difficile del lotto, impreziosito dalle linee canore di Tom Warrior dei rinati – per quanto? – Celtic Frost, mentre “Dictatorsaurus” fa pensare ai Voivod più intricati dell’ era Techno-Thrash – se questa è una definizione giusta – con Snake alla voce che, guarda caso, qui presenzia. E nonostante i Voivod aleggino un po’ ovunque in “Probot”, persino nel cover-artwork ad opera di Away, l’ Heavy-Rock sabbathiano torna a farsi sentire con “My tortured soul” e con Eric Wagner dei Trouble. Conclusione affidata alle oniriche atmosfere della discreta “Sweet dreams”, featuring King Diamond. Scusandomi per questa mia track-by-track, ma vi assicuro che per rendere idea dei contenuti di “Probot” non era possibile agire in altre maniere, uso due parole per chiudere: “Probot” potete prenderlo in tanti modi… Un’ operazione commerciale, anche se l’uscita su Southern Lord ed il fatto che i soldi, dalle tasche di Grohl, escono da più di due lustri, oppure un esperimento, o un tributo, come in effetti l’ex batterista dei Nirvana dice… Io lo prendo come un disco fatto di undici canzoni, di cui almeno otto d’altissimo spessore, con uno stile riciclato da mille direzioni che possiamo però perdonare, dato che tutto ciò era negli intenti del leader dei Foo Fighters. Insomma: non badate alla struttura ed ai fini per i quali è uscito questo disco. Badate ai suoi contenuti, e dal canto mio posso assicurarvi che valgono la spesa…