Poison – Hollyweird

Se il metal, all’inizio degli anni novanta, è caduto in un profondo stato di crisi, lo dobbiamo anche alle band come quella dei Poison ed alla trionfale esplosione del glam, tutta fatta di capelli cotonati, abiti trasgressivi, ed un tumulto di sesso, droga e rock n’roll. Tuttavia, è impossibile non riconoscere a dischi come “Look what the cat dragged in” o “Open up and say…ahh” la loro immensa qualità. Pionieri dell’hard rock ottantiano stradaiolo al fianco delle stelle nascenti Motley Crue, i Poison sono nuovamente in scena con la loro ricetta a base di un rock semplice ed asettico da contaminazioni quali tecnicismi o strutture musicali complesse, vocalizzi incentrati sulla proposizioni di linee canore sempre easy listening e sprofondanti in refrain dall’impatto sicuro ed immediato, e una dozzina di song – tredici contando la bonus track “Rockstar” – in cui ciò che conta, fondamentalmente, è colpire l’ascoltatore. I toni, partendo da un ipotetico rock n’roll party-oriented che si discosta da quello di Andrew W.K. soltanto per la sua direzione, lievemente orientata su lidi tematici più seri, divengono addirittura epici su “Wasteland”, pezzo che si proclama come l’ennesimo inno al rock n’roll e che potrebbe essere raffrontato – per stile, non per qualità – alla monumentale “Requiem – We will remember” dei Saxon. Tuttavia, siamo un altro pianeta, tematiche a parte. Il resto si propone esattamente tramite ciò a cui, nel corso degli anni, i Poison di Bret Michaels – singer decisamente noto più per le sue trasgressioni sessuali con Pamela Anderson che per la sua voce, sempre semplice e comunque visibilmente ritoccata con l’effettistica computerizzata – ci hanno sempre abituati. “Emperor’s new clothes” è uno degli episodi più energici del lavoro, con le sue ritmiche quasi punkeggianti e con l’incedere di un refrain sempre più supportato dai leads di chitarra in là con lo scorrere della canzone, e ad essa, stilisticamente parlando, si accoppia perfettamente “Livin’ in the now”. Tutto ciò che non ho rammentato è ordinaria amministrazione: dalla opener “Hollyweird” sino al duo “Home” le sorprese non fioccano di certo, eccezion fatta per la cover dei The Who del recentemente scomparso John Entwistle “Squeeze box”. Un disco che potrebbe affascinarvi ai primi ascolti, un lavoro che sicuramente si propone migliore rispetto al deludente “Native tongue”, ma che non intacca neanche di striscio quando messo n mostra dai Poison fra il 1986 ed il 1990. Tuttavia, rispetto al deludente “Never a dull moment” di Tommy Lee, siamo su di un altro pianeta.