Planet X – Live from Oz

Non esistono parole capaci di descrivere, da sole, l’importanza di musicisti come Tony MacAlpine (subentrato nei Planet X al posto del meno rinomato Brett Garsed, quest’ultimo ora alle prese con Baker e Fierabracci nei Mojo), Virgil Donati e Derek Sherinian. I tre, avvolti da un alone di importanza tutt’altro che velleitario e capaci di produrre, nel corso degli anni, piccole gemme della musica progressive attraverso momenti solisti e collaborazioni più o meno audaci e solide, si ritrovano assieme nella line-up della ambiziosa creatura Planet X, formazione che definirei l’ennesima all star band su cui Inside out ha avventato i propri capaci tentacoli. Il trio, supportato dall’innesto al basso di Dave LaRue – tutt’altro che uno sconosciuto, dato che collabora con Steve Morse sin dal lontano 1988, oltre che con Vinnie Moore e John Petrucci – ha dato vita a questo live album strumentale che si dipana in ben quattordici tracce dall’immenso valore artistico – tecnico, i cui contenuti si perdono però in un bicchier d’acqua sotto l’aspetto della riuscitività, dell’espressività, e della carica emozionale che da grandi artisti come quelli coinvolti nel progetto, francamente, era ben attesa. E con uno Sherinian ben lungi dal rimembrare i propri trascorsi nei Dream theater, ed ormai avvinghiato alla nascitura realtà dei Brit Popster Jughead (in cui collabora assieme al grande Ty Tabor), il giocattolo dei Planet X pare destinato a rompersi sin dai primi minuti di scorrimento di questo “Live from Oz”. Trame progressive e fusion si diramano in duelli che portano – sullo scudo delle proprie partiture – i blasonati nomi dei relativi padroni, l’ascoltabilità del prodotto si riferisce a pieno alla bravura dei quattro, che suscita ammirazione e si dimostra capace di fendere l’animo anche degli ascoltatori del progressive più intransigente, ma qualcosa non va, ed il sentore che pervade l’aria è troppo forte per passare inosservato. Se dischi come “2112” dei Rush o “Fragile” degli Yes erano connotati da un connubio impeccabile fra tecnica, capacità di catturare l’ascoltatore e riuscitività melodica, i Planet X sfoderano una brutta copia del progressive rock più eclettico e meccanico. Nulla rimane in mente dopo l’ascolto, e passaggi successivi non rincarano di certo la dose di lode da relegare a “Live from Oz”. Una dimostrazione del bagaglio tecnico dei singoli, esposto in quantità tali da annichilire anche i musicisti più attenti e preparati, si abbatte sull’ascoltatore ma non lo cattura, non lo induce a premere nuovamente sul tasto “play” al termine del lotto di brani. Un viaggio in cui l’assoluto protagonista pare essere lo stesso Sherinian, le cui linee di tastiera sono messe in bella evidenza, e la cui caratura viene esaltata e sottolineata da pezzi eccezionali come “Warfinger”, e da qualsiasi altro episodio, più o meno banale o celebrativo in questo immensa e tortuosa valanga di alti e bassi. Aspettando “Moonbabies”, i Planet X hanno dato prova solamente di alcune delle skills che ad un musicista sono richiesta. Su quei frangenti, i quattro sono promossi a pieno, ma per carità, che non si limiti il progressive ad una sorta di voluta dimostrazione tecnica. Bands come Pain of salvation o Rush, in anni recenti, hanno saputo proporre materiale decisamente più essenziale e nettamente superiore a questo. Ora staremo a vedere.