Togliete quelle fastidiosi digressioni nell’easy listening di cui ormai lo Swedish death è farcito un po’ovunque, a partire da Soilwork e Darkane, ed inserite questi estratti in un contesto fatto di metallo moderno ed industrial, con riferimenti che vanno ad infrangersi persino nell’electro-pop ottantiano, e con tante piccole sfaccettature. Il risultato saranno i Pain di Peter Tagtgren, rinomato produttore musicale che, già noto per la sua carriera ancora in corso con gli Hypocrisy, nei quali ha innestato dosi di suoni groovy e catchy pressochè letali – il tutto sul recente e troppo blasonato “Catch 22”, torna alla carica con “Nothing remains the same”, disco attraverso il quale egli ribadisce ampiamente la sua passione ed il suo interesse già precisati ampiamenti sul precedente “Rebirth”. Il tutto si manifesta come un disco nel complesso ampiamente superiore rispetto a tutte quelle colossali e beffarde gemme di Swedish death sperimentale e moderno, rispetto a dischi come “Reroute to remain”, “Expanding senses” o “Natural born chaos” che, sinceramente, mostrano compositori ricchi di idee ma assai incapaci di mostrare risultati sostanziosi. Tagtgren elimina la componente Death presente su “Catch 22” dei suoi Hypocrisy, volge un occhio al passato e riferisce l’altro all’orizzonte temporale, guardando al prossimo decennio. Ciò che ne risulta è un parziale revival del pop danzereccio ottantiano, del crossover più pesante, e di sonorità che, comunque, appaiono ancorate saldamente al metallo. “Shut your mouth” si apre con una melodia di tastiera che farebbe impazzire persino le dance floor, “It’s only them” ed il singolone “Just hate me” combinano un compendio totalitario di orecchiabilità e potenza, ed una fantastica cover di “Eleanor Rigby” dei The Beatles desta semplicemente meraviglia e stupore: il pezzo, colonna dell’ensemble di John Lennon e soci, viene dissezionato e riempito di futurismo, fraseggi di tastiera industrial, voci effettate. Un colpo grosso. Gran disco, questo di Tagtgren, che paga però una certa insistenza su ritornelli che alla lunga tendono ad assomigliarsi e a non colpire propriamente, lacuna alla quale si aggiunge una pesantezza lievemente forzata su alcune fasi del lavoro. Il resto fila liscio come l’olio, proprio come su “Rebirth” ma con un pizzico di maturità in più da parte del Peter tuttofare, sempre più consapiente dei propri mezzi e delle capacità di cui oramai, francamente, sappiamo tutto. Solo che ad ogni nuovo giro discografico lo stupore verso questo musicista aumenta.