A scanso di una copertina orribile che mi aveva portata superficialmente a squalificarli come l’ennesima band di gothic metal sinfonico, e per la serie ‘l’abito non fa il monaco’, gli Ostara si sono rivelati già a primo ascolto una formazione oltremodo valida e interessante. Si tratta di un pop-rock sottile e delicato, che in certi frangenti si rabbuia cupo rifugiandosi in dintorni dark, in altri si libra spensierato al di là del tempo e dello spazio regalando pause mentali semplicemente rilassanti. I nomi che saltano fuori durante l’ascolto beato di ‘Ultima Thule’ sono quelli poco ortodossi (‘metallicamente’ parlando) degli ultimi Tiamat, dei Paradise Lost di ‘Host’, Zeromancer e Porcupine Tree. Ovviamente, come intuibile dalle band citate, anche gli Ostara pagano il loro discreto debito ai Depeche Mode, ma a quelli meno ombrosi. In ogni caso siamo di fronte ad un disco di ottima fattura, dove le influenze assurgono a mero ruolo di trampolino di lancio e di materiale grezzo da rielaborare personalmente. ‘Ultima Thule’ è un lavoro convincente sotto tutti i punti di vista, ispirato, maturo e dannatamente coinvolgente, complice soprattutto la prestazione vocale di tale Richard Leviathan, a dir poco sentita ed espressiva. L’opener ‘Rose Of The World’ è paradigmatica in proposito, vantando un ritornello di rara bellezza e drammaticità. Ma, oltre al cantante, un plauso soddisfatto va alla band nella sua interezza, capace di allestire teatri strumentali perfetti ad accogliere la calda voce del protagonista, essenziali e disadorni a primo acchito, ma a ben vedere punteggiati da raffinatezze e particolari curati al dettaglio. Ad esempio l’elegante lavoro di chitarra, impalpabile ed etereo, o il batterismo agile e ‘carezzato’, che esalta la resa acustica e molto ‘umana’ del disco (che pure si concede ausili elettronici). Nel complesso un album brillante e competitivo, capace di combattere ad armi pari con i grandi nomi sopra citati e di non uscirne sconfitto. Dategli una possibilità.