Orquesta del desierto – Dos

Prima di partire per questo viaggio all’ interno di “Dos” sarebbe lecito spendere due parole sui nomi che hanno contribuito alla realizzazione di questo grandissimo album: Pete Stahl, la mente dell’ Orquesta del Desierto, nonchè l’ex trascinatore dei Goatsnake; Mario Lalli (Fatso Jetson), già al lavoro in passato con il celebre batterista dei Kyuss, Brant Bjork, in quanto apparso nel progetto The Operators; Dandy Brown degli Hermano di John Garcia, poi Adam Maples degli Earthlings, ed altri ancora. Un supergruppo, naturalmente, e di quelli da far impazzire coloro che stravedono per cose come le Desert sessions che, con gli ultimi volumi recentemente usciti (nono e decimo), potremmo quasi considerare il rivale numero uno, parlando di attualità, dell’ Orquesta del Desierto stessa. Ma siamo su altri piani: il duello con Josh Homme è serrato e Stahl non ne esce certo da perdente, se non, forse, per tutto ciò che ruota attorno ai rispettivi livelli di popolarità dei due progetti, distanti un abisso. L’ Orquesta del Desierto, in più nei confronti dello sperimentalissimo e rischioso progetto di Homme e compagnia bella, dispone di un gran rispetto per l’essenzialità e per la forma canzone, cosa che nel caso delle Desert Sessions forse avviene più in occasione dei brani di punta, o meglio, in episodi isolati (idem per i Queens of the stone age, a mio avviso, e ne è prova “Songs for the deaf”): si parte da strutture sempre e comunque semplici, e poi il materiale grezzo viene arricchito con aggiunte strumentali gradevoli ma che non disperdono l’anima Pop/Rock che è fulcro del songwriting imbastito da Stahl e soci. Rock dunque, ma anche Folk, basi Blues, elementi Pop, e discrete quantità di psichedelia. Nel ricettario dell’ Orquesta del Desierto deve presenziare un po’ di tutto, perchè si possano plasmare l’intro southern di “What in the world” o le cavalcate ritmiche di “El diablo un patrono”, passando poi per le rilassate “Summer” e “Someday”, fino agli elementi ritmici latini dell’ incipit di “Life without color”, od al caratteristico stile dei R.E.M. che appare bruscamente nella splendida “Above the big wide”, ed in particolare nel cantato eseguitovi da un ispiratissimo Pete Stahl. Ed un altro esempio di grande orecchiabilità, mista però a classe sopraffina, è la velocissima “Quick to disperse”, un altro dei singoli capolavori di cui “Dos” è munito. Nove tracce, nove gemme. Pochi cali di tono, una band che si diletta in tanti stili diversi fra loro abbandonando i canoni stilistici, vedi ad esmepio lo Stoner Rock, da cui provengono i musicisti coinvolti nella formazione, ed in definitiva una delle migliori uscite discografiche di un 2003 in cui forse i grossi nomi ci hanno un po’ tradito, obbligandoci a ripiegare laddove le stelle in apparenza brilleranno meno, e dove i marchi di fabbrica saranno poco altisonanti. Ma anche dove solitamente, con un po’ di attenzione, si scovano le migliori sorprese. Desert sessions, la sfida è aperta…