Opeth – Tesi eretiche

A cura di: Marco “Dark Mayhem” Belardi

Capitolo I: Anni novanta – Solo gli Opeth?

Gli Opeth, che piaccia o no, sono diventati nel tempo un fenomeno di massa per i metallari, una di quelle icone che – effettivamente – fanno tendenza e muovono l’opinione di chiunque, schierando detrattori contro fans, facendo parlare di sè anche fra chi è interessato ad altri generi e/o settori del Rock. Esattamente come i Nevermore, gli Opeth rientrano in quella categoria di band intoccabili che possono benissimo permettersi di giocare con sè stessi di disco in disco senza per questo scatenare – ogni volta che ci troviamo dinanzi ad un cambio stilistico evidente – la furia di chi la musica la segue con passione. A differenza dei Nevermore, però, la principale divergenza della situazione degli Opeth da quella riguardante Warrel Dane e soci va ricercata non tanto nella coerenza, in quanto le problematiche che vi esporrò riguardano la formazione svedese da anni, ma nella qualità. I dischi degli Opeth sono tutti quanti dei capolavori come si dice insistentemente in giro? Rispondiamo con un laconico “no”, e per un attimo torniamo indietro di un piccolo passo. Che le band di qualità stiano latitando numericamente a partire dagli anni ’90, è un fatto ridicolo: il decennio terminato nel 1999 ci ha decisamente provato che il Metal non è morto, anche se ha fatto di tutto per spirare, con la complicità dell’ottusità della gente e con il crollo del suo fattore ‘vendite’. E se le icone degli anni ’80 non sono ancora state sostituite solo per problemi relativi all’ impoverito mercato della musica che amiamo, è anche vero che i postumi Death, Anathema, Voivod, Nevermore, Fear Factory e mille altri combo ci hanno regalato dei capolavori che, qualitativamente, nulla hanno da invidiare a ciò che negli anni ottanta portava il sigillo di Twisted Sister, Iron Maiden ed altri. Gli Opeth rientrano fra questi, hanno fatto la loro parte, ma la mia impressione è che si stia correndo un po’ troppo nel volerli inserire a tutti i costi fra i futuri Metal acts di maggior rilievo. Insomma, quel che voglio dire è semplicemente che regna troppa ipocrisia: inutile dire che gli Opeth sono i primi a meritare di diventare una formazione di culto, quando si sa benissimo che negli ultimi quindici anni sono nate band che hanno detto molto più di loro, nel Metal. Ed ora, naturalmente, procediamo con i fatti…

Capitolo II: Cosa suonavano gli Opeth?

“Gli Opeth sono geniali, gli Opeth sono creativi, gli Opeth suonano musica innovativa”. Non metto in dubbio che abbiano scritto qualcosa in più rispetto ai Kreator di “Violent revolution” – a livello di idee e di freschezza – ma anche su questo fronte si è detto di tutto e di più, senza criterio alcuno. Cosa suonano gli Opeth? Innanzitutto dividiamo la carriera della band svedese in due tronconi, quello che va da “Orchid” a “My arms, your hearse”, quindi il periodo 1995-1998, e quello più recente, includente “Still life”, “Blackwater park” e “Deliverance”, ivi trattando in maniera a sè stante “Damnation”, per il quale aprirò un nuovo capitolo a sè stante. Primi Opeth: teoricamente un Death Metal di stampo europeo, che in maniera ingannevole potrebbe far pensare al Doom a causa della sua eccessiva lentezza – un genere verso il quale sono comunque presenti dei cenni espliciti – ma che non manca affatto di proporre violenza ed aggressività. Questi Opeth, definiti a più riprese come una Gothic Metal band, sono in realtà un combo di pseudo deathsters – prendendo con le molle il termine “Death Metal”, settore in cui, del resto, sono rientrati per svariati anni persino i Tiamat – capace di aprire spazi a più correnti esterne. Strutture prolisse, ossessive: delle autentiche mattonate indigeribili ma belle da osservare con la dovuta attenzione. Un autentico affronto alla forma canzone, cosa a cui il Death Metal raramente rinuncia, e che in Europa diverrà – ma non grazie agli Opeth – una sorta di tormentone: pezzi che superano spesso gli otto minuti di durata, dischi composti da poche tracce, passaggi tecnici anche grazie a quel Martin Lopez, ex Amon Amarth, che verrà inserito in formazione a partire da “My arms, your hearse”. Gothic Metal? No. Ditelo ai Paradise Lost – ammesso che lo suonino anche loro – ed un certo Holmes vi dirà di averlo inventato cinque anni prima dell’uscita di quell’ “Orchid”, ma in una maniera totalmente diversa; ditelo a Morten Veland, e questi, con una certa cognizione di causa, vi riderà in faccia. Forse neanche Death Metal, pensando alla concezione americana del genere, ammaliante anche verso gli europei ed in particolare verso i Pestilence di Tony Choy. Sicuramente non Doom, un genere troppo spesso scambiato per ‘Metal lento’ senza un motivo particolare, quando in realtà si sa che si tratta di tutt’altra cosa. Ma gli Opeth non hanno neanche coniato un genere nuovo. Perchè? Passiamo al prossimo capitolo, e cercherò di spiegarvelo.

Capitolo III: Derivativi

Gli Opeth sono una delle band più derivative e meno originali degli anni novanta, forse la più sopravvalutata assieme a quei Pain of Salvation di cui si dice tanto in termini di oro colato. Da cosa nasce il suono degli Opeth? E soprattutto, da chi? Basta stare in casa, non importa andare lontano: nel 1994 i nostrani Novembre realizzarono “Wish I could dream it again”, disco importantissimo per tale corrente ma mai rivalutato soprattutto negli anni novanta. “Wish I could dream it again” è uscito un anno prima di “Orchid”, debut degli Opeth. Oggi, ahimè, è risaputo che i Novembre sono dei mezzi cloni degli Opeth. I conti non tornano, ovviamente. Ma varchiamo la frontiera: Inghilterra, Paradise Lost di “Lost Paradise” e “Gothic”, altri eventuali ‘padri’ degli Opeth che, schifosamente, al Day at the Border italiano hanno ottenuto una posizione ridicola nel bill mentre gli Opeth, ottenendo consensi ovunque, suonano in una posizione di rilievo assoluto al Summer day in Hell (David DeFeis ne sa qualcosa, ancora una volta messo sotto coi suoi Virgin Steele, nonostante l’ennesima prestazione live infuocata e pressochè perfetta). Altri conti che non tornano? Si. Anathema, altra band anglosassone, stavolta con un tono più doomeggiante: esordio nel 1992 con “The crestfallen”, ed è anche questo un lavoro uscito in netto anticipo rispetto ad “Orchid”, persino di ben tre anni. E poi altri acts svedesi, come quello dei Katatonia di Jonas Renske e di Anders Nystrom, gli amiconi di Akerfeldt, quelli che lo batterono sul tempo di due anni col capolavoro “Dance of december souls” (1993), neppure il loro debut effettivo. Ecco da cosa derivano gli Opeth, ed anche se potrei continuare (magari coi primissimi Septic Flesh e My dying bride, per farvi un esempio), passiamo ad altro. I secondi Opeth.

Capitolo IV: Cosa suonano gli Opeth?

“Still life” rappresenta in un certo senso il disco della svolta per gli Opeth: per alcuni è il loro platter meglio riuscito, per altri l’inizio del loro secondo corso. Per me la seconda ipotesi è vera, anche se in termini di qualità va comunque detto che “My arms, your hearse” e “Morningrise” risiedono su di un piedistallo ben più elevato rispetto a quello sul quale si trova, ad esempio, il tanto osannato e celebrato “Blackwater park” (2001). Primo pomo della discordia: Pink Floyd. Frasi celebri annesse: “le atmosfere di Blackwater park riportano alla mente la psichedelia dei Pink Floyd”. Ed ecco l’affronto a Syd Barret: mentre un metallaro su mille avrà ascoltato “The piper at the gates of dawn”, lo stile pinkfloydiano viene esaltato attraverso… gli Opeth. Cioè: non si rende tributo ai Pink Floyd, a “Another brick in the wall” od a “Dark side of the moon”, ma ad una band dannatamente derivativa che inserisce qualche elemento pinkfloydiano in una musica già di per sè derivativa? E poi, si rende omaggio in termini di originalità e creatività agli Opeth pur sapendo che questi attingono certi elementi da Barret e soci. Oltretutto, sono pronto a scommettere che si ragiona per sentito dire: i Pink Floyd sono tutt’altro che celebri e rinomati fra i metallari, quindi è ovvio che si finisca per parlare per citazioni lette o per altro. Ma passino i riferimenti verso i Pink Floyd. Il nuovo sound degli Opeth è una versione più melodica e meno secca del precedente, presenta ampie dosi di clean vocals ad esempio in “Blackwater park”, e mostra quanto sia stata importante la collaborazione con Steve Wilson, produttore nonchè leader dei Porcupine Tree, altra band che ha insegnato tanto agli Opeth e che, su “In Absentia”, ha anche imparato qualcosa da loro. I suoni di chitarra sono maggiormente pieni, prodotti, leccati; la musica si fa decisamente viva, non più depressa come in passato, magari più evocativa ed atmosferica. Direi, piuttosto, accessibile. E Music for Nations gode, legge i dati di vendita ed esulta. E gli Opeth diventano una moda, finiscono per piacere ai deathster come a chi segue il Gothic Metal, affascinano qualche Doom metaller e finiscono negli scaffali degli appassionati di Classic, Black e tanti altri. La Opeth-mania imperversa dinanzi agli arpeggi della band, davanti a quei pezzi da nove minuti ed oltre che ora iniziano con ferocia, poi, nei consueti break, incantano come canzoni d’amore tristi ma evocative: gli svedesi finiscono per piacere agli amanti del Progressive Rock, complici le intricate linee di batteria di Martin Lopez (specialmente su “Deliverance” e “Damnation”) e le interviste in cui Akerfeldt dichiara di ascoltare gli Area, finendo per far intuire alla gente che gli Opeth si ispirano persino a loro – ed anche Demetrio Stratos, sentendo tutto ciò, magari si rivolterà nella tomba. Ma non dimentichiamo le ragazze metallare: quante volte avete sentito dire che Akerfeldt è un bel ragazzo? Pete Steele, da qualche parte oltre l’oceano, si starà mangiando le unghie nervosamente, sudando per il trono di “Metal sex machine” che non più gli spetta. Precisando che alle rocker piacciono anche James Hetfield, Dee Snider e Lemmy, andiamo oltre (il porro sulla guancia di Lemmy ringrazia).

Capitolo V: Gli Opeth suonano Prog

“Gli Opeth suonano Prog”: la frase più bella fra quelle che ho sentito sul conto dell’ensemble scandinavo. Quella che più di tutte ha suscitato la mia ilarità, ma soprattutto, quella che più di tutte ha fatto ridere chi il Prog – a differenza mia – lo ascolta davvero e con una certa frequenza. Riferendomi, naturalmente, al Progressive Rock, togliamo quindi il suffisso Metal, ed allontaniamo i vari fantasmi (Dream Theater su tutti) della sua celeberrima ondata. Già, parlare degli Opeth significa ridere obbligatoriamente. Nulla togliendo al valore della band, ma mi riferisco a ciò che si dice sul loro stile. “Damnation” o no, gli Opeth non hanno mai suonato Prog. Ne ascolteranno a bizzeffe, è vero che Akerfeldt segue gli Area, e probabilmente sarà la stessa cosa per Yes, Toto, King Crimson, Gentle Giant o Genesis. Diciamo piuttosto che la band ha studiato la teoria musicale rifacendosi molto a certi nomi e filoni: Martin Lopez è sicuramente il membro più tecnico della band, le chitarre risentiranno sempre più dell’influsso dei Porcupine Tree, ma gli Opeth non hanno mai suonato Prog. Mai. Neanche su “Damnation”. Ammesso che parlare di Prog serva a qualcosa, dato che chiedendo a cento persone il significato del termine “Prog” si otterranno cento risposte dal significato diverso… Se volete sapere la mia, ho pensato per anni che “Progressive” fosse un termine collegabile alla musica che progredisce rispetto ad una base di partenza, un appellativo che dunque si potrebbe legare agli Opeth quanto ai Gentle Giant, ai Vanden Plas quanto, purtroppo, ai post-thrashers Fear Factory. Teoria che dunque non stava in piedi, e quindi torniamo a concedere alla parola “Prog” l’appartenenza di un vero e proprio filone stilistico a sè stante, quello, appunto, di Gentle Giant, Yes, Rush. E Opeth? No! La risposta definitiva, pur trattandosi di un opinabilissimo parere personale, è che gli Opeth studiano ed ascoltano il Prog, ma che non lo suonano affatto, neanche lontanamente.

Capitolo VI: La dannazione

“Damnation” è il primo disco degli Opeth che mi ha fatto dubitare sull’effettivo valore delle idee compositive di Akerfeldt e compagnia bella. Innanzitutto, perchè la band ha fatto di tutto per far capire che voleva mettere in atto un qualcosa che la distaccasse dalla parola “Metal”, ed è stato provato dai metallari stessi che gli Opeth, una cosa del genere, potevano permettersela (non esattamente come è capitato coi Metallica, che producendo un disco interessantissimo come “Load” hanno fatto infuriare praticamente tutti, Ulrich compreso, che nelle interviste post release di “Reload” rinnegò a più riprese il suo predecessore). Si, ci sono arrivato in ritardo, dato che solamente adesso arrivo a capire che in seguito a “My arms, your hearse” gli Opeth non hanno mai sfornato un altro capolavoro, complice la scarsa longevità di tutta la produzione post “Still life” ed il fatto che, comunque, si tratti di una musica dalla presa rapida e potente che mi ha reso succube di essa per qualche mese. Insomma, musica profonda, ma indiretta e ‘da capire’ solo all’apparenza. Ma adesso sono libero di disquisire e abbastanza tormentato – dagli ascolti – dalla materia Opeth da poter stendere un giudizio definitivo per quel che riguarda la mia personale opinione a riguardo: “Blackwater park” è un disco che ti fa innamorare per qualche mese, forse per un anno: ma adesso la sua confezione è piena di polvere, lassù nel mio scaffale dove “Load” sembra sia stato acquistato ieri nonostante si trovi lì dal 1996. “Still life” ha forse qualche spunto in più, ma una componente atmosferica non matura come quella del suo succitato successore: dunque pecca ancor più in longevità, ivi in affidabilità, in definitiva persino in qualità. “Deliverance” suscita in me le mie più profonde scuse nei vostri riguardi: quel 9,5 assegnatogli in sede di recensione è roba da pazzi, ma non ho mai cambiato i voti a recensioni passate nè lo farò mai, poichè dovrei riscriverle ex novo per questioni di serietà e di coerenza. Adesso, francamente, si meriterebbe un 7. Essendo io di manica larga e di buon umore, non per altre ragioni. “Damnation” è quello che ritengo in assoluto il disco meno ispirato della band: scarti messi assieme a formare canzoni, ma soprattutto zero novità rispetto al passato. Prendete le parti lente di “Deliverance” e costruiteci un disco intero, et voilà, ecco a voi “Damnation”. Con una maggior classe e raffinatezza, senza quella componente Prog di cui tanto si è accennato a sproposito, e con due o tre buone canzoni messe lì a giustificare una spesa di diciotto Euro, quella spesa che, moltiplicata per il numero di acquirenti, ha dato la possibilità di acquistare l’auto nuova a molti dipendenti della Music for Nations. La Metal Blade ha ristampato i dischi di Hallow’s Eve, Helstar ed Omen: spendeteli lì, i soldi! Oppure uscite in un bel pub, andate un pomeriggio al mare. “Damnation” è uno specchio per le allodole, allodole con i capelli lunghi e il chiodo con le toppe dei Nevermore cucite sul retro, allodole che asseriscono che i Novembre sono noiosi e derivativi, e che porterebbero su di un trono d’oro il lungocrinito Akerfeldt, con tanto di inchino – e di vinile da farsi autografare con dedica annessa.

Capitolo VII: Un minuto di silenzio

Su suggerimento del prode DavS, rivolgiamo un minuto di silenzio alle band dimenticate: Paradise Lost, Septic Flesh (di cui personalmente sopporto solamente i primi lavori in studio), Novembre, My dying bride, Katatonia. La sposa morente è davvero morente, dato che si parla solamente di un paio di loro tutt’altro che recenti lavori (“The angel and the dark river”, “Turn loose the swans”), e dato che – purtroppo – la legge del sentito dire ha infettato pure loro: “i My dying bride sono noiosi, i primi Opeth no”. Frase che echeggia nella testa di tanti, suscitando reazioni diverse, come la rabbia (in me). Chi fra coloro che lo sostengono ha sentito i My dying bride eccezion fatta per il concerto – sotto il sole – al Gods of Metal di qualche tempo fa? Chi invece sostiene che la loro incredibile genialità è espressa anche negli esperimenti meno riusciti, vedi “34,788… complete” (immagino già le tre mani alzate in mezzo alla folla)? Il senso di derivazione che ci pervade ascoltando i My dying bride, eppure, è molto più contenuto di quello che nasce durante l’ascolto di un “Blackwater park” o di uno “Still life”. Ma gli Opeth sono gli Opeth, vero: me ne ero dimenticato. Andiamo oltre: “i Novembre si rifanno al sound degli Opeth”. Basta, mi scoppia la testa! I Novembre hanno debuttato persino un anno prima rispetto agli Opeth! E la loro cura nei confronti del lato artistico della musica proposta è invidiabile, sicuramente una dote che negli Opeth non troviamo nemmeno sotto forma di denutriti grappoli. Oppure i Septic Flesh, inutili e insopportabili in “Sumerian Daemons”, fantastici in “Ophidian wheel” e “Esoptron” – lavori che ho ascoltato in parte, ma che mi procurerò più avanti, magari proseguendo con le rispettive recensioni – anch’essi superiori per idee e creatività a questi Opeth, tanto blasonati ma capaci di seminare poco in mezzo a cotanto raccolto. Poi i Paradise Lost, e le lacrime scendono: prima il Doom-Death (Gothic Metal per alcuni, forse solo a causa del titolo del celebre disco), poi la sperimentazione, le critiche per il cantato hetfieldiano di Holmes in “Icon” e “Draconian times”, quindi i riflessi a’la Depeche Mode (il fantastico “Host” su tutti, etichettato dai più come un flop senza un preciso perchè). I Paradise Lost hanno suonato di tutto, non hanno sbagliato un sol disco (ad eccezione forse di “Lost Paradise”, che personalmente ritengo indigeribile), e si ritrovano a mangiare la polvere, a suonare di spalla agli HIM di Valo (altro sex symbol che, come Akerfeldt, scatena i cuori delle metal girls; ed altro musicista che se facesse quello che dice di voler fare nei testi delle canzoni mi farebbe un enorme piacere). Cioè: cosa hanno fatto di male i Paradise Lost per ritrovarsi questa popolarità ridotta? E cosa hanno fatto gli Opeth per surclassarli? Infine i Katatonia: dischi su dischi, sempre di grande qualità, un esordio anticipato rispetto agli Opeth, e tanti successi sino al moderno ed acclamato “Viva emptiness”, dove la band ha si cambiato le carte in tavola, a dispetto degli pseudo cambi di direzione che gli Opeth ostentano in “Damnation”. Per carità, non fraintendetemi: sono un fan degli Opeth sin dall’uscita di “My arms, your hearse”, lavoro col quale li ho conosciuti e del quale ho amato in particolare la stupenda “April ethereal”. Ma per carità, siamo dinanzi ad una buonissima band, ma non di fronte ad un act di culto per ciò che riguarda gli anni venturi.

Capitolo VIII: Svezia contro Seattle

Niente grunge, ma più semplicemente: chi merita di più, Opeth o Nevermore? Chiedendo a mille metallari dell’ ultima generazione di teenager chi più merita di diventare una band di culto, credo che l’80% di questi risponderebbe “Opeth e Nevermore, su tutti”. Innanzitutto, fra le band nate e cresciute nei nineties ne andrebbero citate almeno una ventina: basti pensare alla crescita del fenomeno Black Metal (Darkthrone, Emperor, Mayhem, Satyricon), al Death floridiano (Malevolent creation) e soprattutto a quello europeo misto a Doom (Anathema di “The silent enigma”, altro mezzo capolavoro purtroppo nettamente sopravvalutato), ed a tanto altro. Ma perchè non Amorphis? Perchè invece Opeth? Misteri del metallo: Opeth e Nevermore sono amati da tutti, nonostante “Deliverance” e “Damnation” si siano rivelati due bocconcini tutt’altro che appetitosi, presentando anzi una scadenza imminente, e nonostante i Nevermore, epopea Sanctuary a parte, si siano svegliati solo a partire da “The politics of ecstasy” dopo un debut album ed un EP per nulla convincenti. Naturalmente, parlo di presunte band di culto per ciò che riguarda gli anni novanta e la decade attuale: non mi riferisco al Metal in generale e non voglio neanche pensare a raffronti con Judas Priest, Black Sabbath o altri. La storia, in fondo, è la storia. Opeth e Nevermore dipendono dalla storia, e fra venti anni ci sarà, si spera, chi dipenderà da loro (sperando che non nascano altri movimenti votati al suicidio ed alla copia in massa come quello che attinge dagli At the Gates di “Slaughter of the soul”, il disco che sta uccidendo, inconsapevolmente, il Metal estremo europeo). Torniamo all’argomento del capitolo: Nevermore contro Opeth, Opeth contro Nevermore. I Nevermore hanno sfornato quattro capolavori in rapida successione, senza intermezzi spiacevoli: “The Politics of Ecstasy”, tecnico e sperimentale, dove la band osa e rischia, “Dreaming neon black”, oscuro e malinconico, dannatamente introspettivo e difficile, poi le due perle assolute. Prima “Dead heart in a dead world”, più accessibile e destinato ad un pubblico più vasto nel suo raggio, poi “Enemies of reality”, sul quale presto mi pronuncerò in sede di recensione, e su cui anticipo che si tratta di una sorta di compendio del Nevermore pensiero – stilisticamente parlando. Opeth: un disco difficilissimo in avvio (“Orchid”), stranamente e raramente catalogato come ‘noioso e prolisso’ come invece accade ai Novembre di “Arte novecento” od a tanti altri; poi i due capolavori “Morningrise” e “My arms, your hearse”, su cui non ho da obiettare in alcuna maniera; quindi il primo lieve calo, tuttavia accettabile, su “Still life” e sul successivo “Blackwater park”; infine il tonfo, con quell’accoppiata formata da “Deliverance” e “Damnation” che prima – parlando del primo dei due platter – mi aveva convinto, e che poi ho lasciato lì, a marcire in disparte ben lungi dal ritornare frequentemente all’ inserimento nel caro lettore cd. La sfida è vinta da Warrel Dane, non c’è ombra di dubbio. Ma è l’unica sfida proponibile, se si parla di formazioni cresciute negli anni novanta?

Capitolo IX: Chi più merita

Negli anni novanta il Death ha proposto Deicide, At the gates, Unleashed, ed una miriade di formazioni nate alla fine degli eighties, vedi Obituary, Pestilence, Cynic, Entombed e tanti altri ancora. Il Thrash si è evoluto, attingendo dal Techno-Thrash di fine anni ottanta per giungere al Post-Thrash, che esiste e non esiste proprio come il Gothic Metal (chi, i Moonspell?) di cui sopra ho in parte parlato, anzi accennato, proponendo però Fear Factory, Machine Head, i secondi Pantera (quelli del periodo post “Power Metal”, capaci di partire dal Power-Thrash americano e di forgiare lentamente un suono a sè stante) e, come per il Death, tanti altri ancora. Stesso discorso per una nutrita schiera di altri generi: il Black Metal, tecnicamente, è nato negli anni ’90, dagli strascichi di Celtic frost e Bathory per alcuni, da Venom e Possessed, o magari persino dagli Slayer di “Hell awaits” (e conseguenti lavori-clone di Infernal Majesty o Hobbs angel of Death), per altri. Così come per il Doom-Death europeo, per tutti quei generi di Metal che adottano matrici Folk, per il Power neoclassico e – ennesimo deja vù a parole – tanti altri ancora. Insomma: quante band potrei citare per ciò che riguarda gli anni ’90? Quanti meritano più degli Opeth di diventare una cult Metal band, di venir citati dalle giovani band future come formazione influente del passato? Strapping young lad, magari. O magari Nevermore (i “vecchi Metallica del 2000”?), Nile (a.k.a. “tradizione più riferimenti a musica e cultura egizia”). Sicuramente non i Solefald, i Die Apokalyptischen Reiter o chiunque altro tenti di mixare assieme più sostanze per risultare attivo con una ricetta originale e propria, ma sicuramente un plauso andrebbe a chi ha davvero creato qualcosa: i My dying bride, i Theatre of tragedy (ammirevoli in “Musique” ed “Assembly” quanto in “Aegis”), i Carcass – che di disco in disco (pur essendo nati negli anni ottanta) si rendevano stupefacenti, finendo per giocare con la propria materia, rimodellandola, in “Swansong”. Di buona musica, nella scorsa decade, ne è venuta fuori tantissima: pochi fenomeni di massa, però. Se gli At the Gates hanno dato via a generazioni di kids munite di band e di un bagaglio tecnico imperioso, gli Opeth in confronto fanno pochi figli ma trascinano le masse, mettono d’accordo tutti, ci mettono sette dischi per ricevere le prime vere critiche collettive. Mentre poi i Carcass al primo sgarro vengono dati per spacciati con “Swansong”, con Steer, Amott e Walker in fuga verso gli anni settanta (vedi Firebird, Spiritual Beggars e Black Star, questi ultimi defunti da anni dopo un debut album convincente solo in parte), e mentre i Metallica in versione cowboy non vanno bene a nessuno, i Depeche Mode affascinano il metal e i metallari, contagiando i Dark Tranquillity e facendosi coverizzare dagli In Flames mentre la scena Death svedese, memore di Carnage e Grave, muore sotto i colpi ripetitivi (sia per tonalità, sia per frequenza) di Soilwork e Carnal forge. Gli anni novanta sono stati belli, hanno dato vita a capolavori assoluti del metallo (“Human” dei Death, “Focus” dei Cynic, o magari “Demanufacture” dei Fear Factory) ed anche a platter sopravvalutati come “The Gathering” dei Testament o, appunto, quell’ “Orchid” che alcuni glorificano sostenendo però che i Novembre e i My dying bride sono noiosi, che non scorrono. Allora, gli Opeth meritano di diventare una cult Metal band, alla luce di due mezzi capolavori prodotti e tre discreti dischi, più due mezzi flop? Se si, lo meritano altre cinquanta, forse settanta band nate fra il 1990 ed il 1999.

Capitolo X: In conclusione

In conclusione, il lettore reagirà in due maniere distinte: o avrà letto il tutto di fretta, e sosterrà che ho spalato escrementi sugli Opeth dal primo capitolo sino al corrente, o avrà capito che riconosco le doti di questa buonissima band, pur non passando per oro colato tutto quel che esce dalla voce di Akerfeldt – ottimo growler, ma mai come lo sono alcuni colleghi americani o persino europei, vedi Tardy o Vincent, Benton o Schuldiner – e dagli strumenti dei suoi compagni di formazione. Gli Opeth sono bravi, sanno suonare ed ascoltano tanta musica. Ma in un periodo in cui si richiede a tutti di essere di mente aperta, una band così derivativa merita di passare per l’inventrice di un intero movimento? Oppure, merita di sotterrare Katatonia e Novembre quando questi ultimi producono lavori di maggior qualità e peso artistico (vedi “Classica”)? Potrei porvi altre mille domande del genere, la risposta del sottoscritto a tutte queste questioni è un severo “no”; ora, magari, rifletteteci pure voi, fatevi le domande che mi sono posto io personalmente, e magari su qualche punto concorderete persino con me. Nel frattempo, ringrazio DavS per avermi dato l’ispirazione che mi ha concesso di scrivere questo articolo – che magari susciterà la rabbia di alcuni sostenitori imperterriti della band svedese… così, avendolo precisato, potrete dare la colpa a lui e non a me (bastardo!!! non è proprio vero…. diciamo che un paio di idee te le ho ispirate io… ma non tutto l’articolo… Bride forever! n.d. DavS) – e gli Opeth per avere comunque sfornato, in passato, dei bei lavori di sano, ma assai relativamente fresco Metal.

Marco “Dark Mayhem” Belardi