No Mercy festival 2003

Localita:Alcatraz, Milano

A cura di: Marco “Dark Mayhem” Belardi

E’ partito all’insegna della polemica generale, il No Mercy festival 2003. Si, perchè chi si aspettava un torrenziale flusso di Metal estremo, ossia Death e Black in primis, si è dovuto drasticamente ricredere quando Live in Italy ha comunicato pubblicamente che il genere padrone di questa attesissima manifestazione sarebbe stato il vecchio – e buon – Thrash. Il solito Thrash che il Gods of Metal bistratta dal 1997 convocando solamente i Re teutonici Sodom-Kreator-Destruction ed assicurando loro posizioni ridicole nei relativi bill di turno, ed il solito Thrash che, dopo il 2000, ha segnalato tante di quelle reunion di lusso da far gioire tutti gli appassionati – come me – di tale corrente musicale. Il No Mercy festival 2003 vuole essere un po’ un tributo nei confronti di questa controtendenza, o se vogliamo rinascita, di un settore che negli anni novanta era dato per morto in via definitiva. E così, bando alle ciance, i convocati di lusso sono stati Testament, Death angel e Nuclear assault. I primi, dominatori assieme agli Slayer dell’edizione 2001 del Gods of Metal, gli altri due oggetti di lusso delle rispettive reunion che, tramite nomi di spicco come Mark Osegueda e Dan Lilker, hanno riportato in attività primaria musicisti d’alto calibro oramai messi in disparte da progetti secondari come quello degli Swarm. E chi ostentava la bandiera dell’estremismo, stavolta ha dovuto accontentarsi: primo, perchè il Thrash ha surclassato tutte le band che si ritenevano più estreme di esso, sia per potenza che per carisma, secondo perchè Marduk e Die Apokalyptischen Reiter non sono stati assolutamente all’altezza, ed i soli Malevolent creation, con una scaletta ridottissima nel tempo, hanno fatto un figurone vantando un certo Tony Laureano (Nile) dietro alle pelli. Ma andiamo con ordine: la delusione principale è stata rappresentata dalla mancanza di Alex Skolnick dietro alla sei corde dei Testament. Tutti lo davano per presente, ed alla fine ci siamo dovuti accontentare di Steve Smythe, ex membro dei Vicious rumors tanto preciso nelle ritmiche quanto vago sulla solistica al cospetto dell’ex Savatage succitato. In ogni maniera, siamo partiti dai Darkane (Voto: 5,5), a mio avviso una delle cinque bands più sopravvalutate dell’intera scena svedese. Klas Ideberg e soci, in supporto all’album “Expanding senses”, hanno puntato decisamente sui pezzi della sua scaletta (vedi “Innocence gone”), pur non rinunciando a classici del passato come “Convicted” dal buon debut “Rusted angel”. Con un suono piuttosto sporco, conseguenza della pessima acustica dell’Alcatraz (un locale il cui soffitto è rappresentato da enormi strutture e tubature di metallo non è certo il meglio, sotto questo frangente, per puntare su suoni validi), i cinque hanno sciorinato un deciso headbanging senza però calamitare troppo la folla presente all’interno del locale, davvero ben nutrita numericamente. Per fortuna, la loro esibizione – nella quale, a tratti, si faticava a distinguere un pezzo dall’altro – è durata assai poco. Rimandati. A seguire, i devastanti Malevolent creation (Voto: 8), che come ho accennato sopra vantavano fra le proprie file la presenza di un certo Tony Laureano, compagno di formazione di Karl Sanders negli ormai celebri Nile. La loro scaletta è risultata decisamente anomala: scelti molti pezzi risalenti al periodo post-1996, fra cui “Infernal desire” e “Kill zone”. I fans del primo periodo della band si sono dovuti accontentare di “Multiple stab wounds” (da “The ten commandments”) e della title-track di “Stillborn”. Ottima la presenza scenica offerta dal duo di asce composto da Fasciana e Barrett, mentre il nuovo singer Kyle Symons ha non poco fatto rimpiangere Brett Hoffmann, una delle ugole più note del Death Metal americano. Brutali, i Malevolent creation, supportati da un discreto suono ma non di certo dalla complicità negativa offerta da una scaletta vergognosamente breve, a causa della posizione nel bill, inspiegabilmente più bassa rispetto a quella offerta ai Pro-Pain. Dopo il pogo col quale il pubblico milanese ha omaggiato la band floridiana di cui sopra, una mutazione ha colpito i presenti. L’arrivo sul palco dei Pro-Pain (Voto: 4,5), ossia la band meno attesa dell’intero festival un po’ da parte di tutti, ha gelato gli osservatori, immobili dinanzi al palco eccezion fatta per qualche sporadico e convinto fan. I tre, con al seguito un look a base di calvizia estrema e bandane, hanno proposto il loro Metalcore senza emozionare, suonando svariati pezzi di “Shreds of dignity” ed assecondando il singer Gary Meskil come l’unica fonte di brillantezza visibile ‘on stage’. Malissimo, specialmente considerando che la carriera dei nostri è ultradecennale. Tutt’altro che degli esordienti, ma ancora in grande difficoltà. Ci hanno pensato i Nuclear assault (Voto: 8), con la loro formazione originale, a risollevare le sorti di questo festival: John Connelly, l’ex Anthrax Dan Lilker, Anthony Bramante ed il drummer dei C.I.A. Glenn Evans si sono presentati agguerriti sul palco. Lilker, con un urlo straziante quanto soffocato, ha dato fuoco alle polveri, e pezzi come “Sin”, “My America” e “Butt fuck” sono stati proposti con tanto carisma e con la giusta audacia. Tantissimi i brani scelti da “Handle with care”, fra cui “New song” (a mio avviso il miglior pezzo mai scritto dalla band americana), “Trail of tears” e la spettacolare “Wake up”. I numerosi problemi relativi all’asta del microfono di Connelly hanno costretto il biondocrinito singer agli straordinari, mentre la sua ugola risuonava minacciosa nell’aria dell’Alcatraz, coadiuvata dal fitto lancio di bacchette nel quale Evans si è cimentato, quasi colpendo lo stesso Connelly in un’occasione… Il suono della sei corde di Bramante – sul palco con un look molto moderno – è stato penalizzato da un mixaggio ridicolo, mentre i soli Evans e Connelly risultavano ben udibili, anche se non durante tutto l’arco della setlist. Concerto che raggiunge l’apice con la insana “Hang the pope”, cantata da Dan Lilker in mezzo all’euforia generale, e con uno stage diving d’effetto offerto da Connelly stesso. Suoni pressochè penosi, ma la problematica in questione è stata surclassata da tanta classe e violenza sonica. Chi pensava che i Nuclear assault avrebbero suonato dopo i Die Apokalyptischen Reiter (Voto: 6) ha sicuramente ricevuto una forte botta in testa, poichè le posizioni delle due bands sono state inspiegabilmente invertite senza alcun preavviso (mentre dell’assenza dei Callenish Circle già si sapeva qualcosa, da fonti non certe…). I tedeschi, con una combriccola guidata dai front-man Volk-Man ed Eumel, sono saliti sul palco dell’Alcatraz col solito piglio folle e anti convenzionale mediante il quale la band si propone nei booklet dei cd e nelle interviste: Dr. Pest dietro alla tastiera con una maschera nera in pelle tipica dei feticisti che appaiono in certi film porno estremi (!!!), singer con coda dietro alla testa rasata e gonna rossa, e… Sir. G inspiegabilmente in difficoltà dietro alla batteria, con svariati problemi soprattutto sui piatti e suoni ridotti a un lumicino per quel che concerne volumistica e potenza. Peccato, poichè i Die Apokalyptischen Reiter si erano rivelati i migliori quanto a soundcheck e relativo mixaggio. Per il resto, oltre ad una band che ha offerto birra al pubblico (lanciando lattine che arrivavano sulle teste come meteore impazzite), lo show ha coinvolto poco, mostrando come proprio apice la storica “Metal will never die”. Okay: il No Mercy inizia soltanto adesso, col trittico finale. Atto primo: Death Angel (Voto: 9,5). Un concerto che si preannuncia disastroso: la chitarra di Rob Cavestany ha dei problemi, e parla chiaro il forte fruscio emesso dal cono del suo amplificatore. Il problema si protrae per tutto il sound check della band californiana (di origini filippine), fino a quando Rob, proponendosi dinanzi al pubblico con tanto di sigaretta in bocca e chitarra inbracciata (quanto mi ha ricordato Weikath!), da’ il via alle danze. E’ l’inferno: la band inizia con “The ultra violence”, immenso brano strumentale del quale vengono proposte solo le prime battute (il riff estratto dalla soundtrack di “Halloween” ed i primi due motivi composti dalla band stessa). Dennis e Gus Pepa optano per il look più stravagante: il primo mostra una cresta sulla testa rasata, il secondo veste in maniera decisamente alternativa ed ha i capelli corti. Gli altri, eccezion fatta per i moderni vestiti, hanno ancora con sè lunghe criniere, delle quali solo quella del giovane drummer Andy Galeon non è caratterizzata dalla presenza di trecce o rasta. La giovane età dei musicisti si scorge benissimo sui loro volti: per chi non lo sapesse, i Death angel esistono dal 1982, ed all’epoca Galeon aveva soli nove anni! Anni che sono diventati 13 nel 1986, quando fu composto “The ultra violence”, il disco più ‘spremuto’ dai cinque in occasione della composizione della scaletta della serata: suonate “Evil priest” (ottima la solistica offerta da Cavestany e Gus Pepa), “Voracious souls” (canzone popolarissima della quale esiste anche un divertente video-clip registrato all’epoca), “Mistress of pain” e “Kill as one”. Bellissimi anche gli estratti da “Frolic through the park”, ossia “Bored” (coi suoi meravigliosi riffs funky) e la veloce “Welcome to the third floor”. “Act III” riscontra minor successo, ma la sua “Seemingly endless time” non regge il confronto coi capolavori del passato. La gente si sconvolge in un pogo violentissimo, e sconvolge anche Osegueda, che alla fine di brani seguiti con un headbanging violentissimo incita il pubblico, ci dialoga, lo ringrazia calorosamente. Il suono è pulitissimo, quasi innaturale, e Cavestany – come Galeon – coglie al volo l’occasione per dimostrare la propria tecnica. La gente continua a chiedere “Thrashers”, ma i cinque americani-filippini preferiscono chiudere con una violenta versione di “Kill as one”, cantata all’unisono da tutti. Un trionfo assoluto del Thrash Metal. Dal clima caldo della California alla Svezia: si passa ai Marduk (Voto: 5,5). E il gelo della loro terra pare colpire anche il pubblico, tantochè – va detto che era anche ora di cena – sono in molti ad uscire dall’ Alcatraz per rifocillarsi in occasione dello show della Black Metal band più amata-odiata della Scandinavia (quanti pareri contrastanti su di loro!). “World funeral” non era il miglior disco da supportare per ottenere una scaletta valida, tantochè solo classici come “Christraping Black Metal”, “Panzer division Marduk” e “Obedience” hanno saputo muovere al meglio l’audience. Un pubblico composto e diviso a metà, fra ossessionati supporters e innati denigratori, che ora ignoravano la band, ed ora la esortavano a smetterla! I pezzi di “World funeral” annoiano decisamente, e non bastano le bestemmie in italiano di Legion (quando avevo sei anni trovavo modi migliori per fare il cattivo…), nè il furioso drumming di Emil Dragutinovic, a riscaldare del tutto l’ambiente. Una batteria dalle dimensioni spropositate compare all’orizzonte (tale era la profondità del palco dell’Alcatraz…), correlata dalla presenza di ben tre piatti Splash (e quindi immaginatevi quanti fossero i piatti di tipo più comune, vedi Crash). Dietro al kit della medesima band, in passato avevano suonato autentici mostri del batterismo quali Gene Hoglan (Death, Dark angel), Dave Lombardo (Slayer, Grip inc.), John Dette (Slayer), John Tempesta (White zombie) e Paul Bostaph (Slayer, Forbidden). Viene da domandarsi perchè i Testament (Voto: 8,5) non abbiano mai assunto Scaglione (con Araya e soci nel tour di “Reign in blood”), dato che tutti i drummer degli Slayer, prima o poi, ci sono passati! Salgono sul palco i Testament, e lo fanno con Steve Smythe al posto del pluriannunciato Alex Skolnick alle chitarre, Eric Peterson all’altra sei corde, Steve DiGiorgio al basso, Chuck Billy al microfono ed Asgeir Mickelson (Spiral Architect, Borknagar) alla batteria. Un drummer piuttosto inusuale per una band Thrash, ma che poi si rivelerà altrettanto potente quanto molti altri colleghi. La prima novità è rappresentata dalla chioma di Chuck Billy: in molti dicevano che il numero dei suoi capelli sarebbe stato decimato dai numerosi interventi di chemio-terapia ai quali il singer di origini indiane era stato sottoposto. Fattostà che Chuck Billy (a cui riserviamo un caloroso “Benvenuto”!), di capelli, ne aveva quanti se ne vedevano nelle sue foto da ventenne… Cesare Ragazzi, o un miracolo (direi piuttosto delle extension, data la misura dei ciuffi)? I Testament, i capelli li fanno roteare furiosamente: l’headbanging di Peterson e DiGiorgio si rivela furioso sin dal primo momento in cui il combo a stelle e strisce calca il palco milanese, la band attacca con “D.N.R.” da “The gathering” e prosegue sempre con “Down for life”, tratta dal medesimo album del 1999. Poi, è la volta dei classici: pezzi come “Burnt offerings”, “Trial by fire”, “Into the pit”, “Disciple of the watch” vengono estratti dai primi due capolavori “The legacy” e “The new order”. Chi – come me – si aspettava “First strike is deadly”, “Alone in the dark” o qualcosa dal sottovalutato “Practice what you preach” è stato immensamente deluso, mentre all’esecuzione di “Over the wall” Chuck Billy ha esortato quelli delle prime file a salire sul palco, trattenendoli su – nel pieno delirio – sino alla fase conclusiva del celebre assolo (che penso un po’ tutti i Thrashers conosceranno…), rovinato da una pessima esecuzione di Steve Smythe. La band suona anche “Low”, mentre – per fortuna – nessun estratto viene ripreso dal brutto “Demonic” del 1997, in quanto ulteriore spazio è stato concesso a pezzi recenti, come la melodica ma schiacciante “True believer”. Un bel concerto, con una scaletta ridottissima (chi ha dato tutto quel tempo ai Marduk dovrà mettersi le mani nei capelli), e con suoni pessimi, pastosi e confusi. Nonostante questo, ripeto: un bel concerto, suonato da una signora band che ha davvero tanto da dire e da insegnare alle giovani leve. Ecco la risposta a chi crede che lo pseudo Thrash di molte attuali Swedish bands conti qualcosa. Il concerto finisce, l’Alcatraz si sfolla ed alla sua uscita accadono scene da delirio: Testament, Death angel e Nuclear assault si presentano con molti dei rispettivi membri, firmano autografi e si fanno scattare foto coi fans, parlano tranquillamente. Mark Osegueda approfitta della damigiana di vino di un fan e inizia a gridare la parola “Revolution” in preda allo scompiglio alcolico, Connelly dei Nuclear assault, vestendo il consueto cappellino, ripete all’infinito la frase “I’m not drunk…only a bottle of good wine and two beers” parlando con voce da alcolizzato cronico, mentre i Testament concedono autografi e chiacchierate a più non posso, dimostrandosi gli unici Thrashers non votati all’alcolismo radicale della serata. Fiumi di birra e vino scorrono nel marciapiede, mentre i soli Marduk si barricano nel tour bus comportandosi da rock star vere e proprie, e concedendo solo qualche foto e/o autografo, con non poca resistenza. Roba da pazzi, ma del resto, si trattava del No Mercy. Passo e chiudo…anzi, bevo! Naturalmente, fuori dal locale, dato che il piccolo appunto col quale chiuderò il report riguarda proprio il penoso comportamento tenuto dai gestori dell’Alcatraz: 5 Euro era la somma da pagare per una birra piccola (dalla qualità peraltro indecente, come al solito), e non sono stati in pochi a dover lasciare fuori le bevande (la scusa è la solita: evitare il lancio di bottiglie) per poi consumare – causa anche l’alta temperatura – all’interno di esso ed a tali cifre monetarie. Insomma, siamo alle solite. Passo e chiudo, stavolta sul serio.