A cura di: Thrasher[XXX], Marco “Dark Mayhem” Belardi
– THE MUDVAYNOLOGY –
Parte I: Premessa
Lo scopo di questo speciale non ha fini commerciali o pubblicitari, semplicemente cerca di offrire uno spaccato di una delle band più interessanti del fenomeno nu-metal ritraendola a grandi linee e riassumendo un giudizio sui dischi prodotti. Fondamentalmente, in futuro, sarà riproponibile questo tipo di approfondimento per qualsiasi band ospitata nel sito! Stay heavy!!!
Simone Thrasher[XXX]
Veniamo subito al punto, ancor prima di partire. “The Mudvaynology” non è una recensione, non è un articolo ma, come sottolineato poco sopra da Thrasher[XXX], una panoramica testuale riguardante una delle realtà crossover più bistrattate e coperte di successo allo stesso tempo. Non stiamo per parlarvi dei Tool, nè di qualsiasi altra band che, all’uscita di un nuovo disco, pare inintaccabile ed esente da critiche negative. Qua stanno per entrare in ballo i Mudvayne di Guug e del suo fantomatico quartetto: crossover allo stato puro, dal momento in cui la parola crossover è stata affidata a miscugli assai poco eterogenei di più branche del Rock. Lo speciale in questione, divagazioni a parte, riguarda “The end of all things to come”, e non si limiterà di certo a parlare della release, imposta sul territorio nazionale per il 25 novembre. Assieme alle recensioni, curate da me e Thrasher[XXX], troverete affiancati articoli non in difesa della band stessa, ma in severo attacco delle sterili critiche che vedono il quartetto come una copia mal venuta dei cugini Slipknot, mirabolante punta di diamante della Roadrunner. A voi la lettura…
Marco “Dark Mayhem” Belardi
...Il disco suona così perfetto e pulito da rimandarmi subito al paragone con il fortunato “Toxicity”: stessa compattezza sonora, nelle matrici pesanti, e stesso estro unico e inimitabile. I Mudvayne, a mio avviso, sanno andare ben oltre… (Simone “Thasher[XXX]”)
…la produzione di David Bottrill emana perfezione da ogni lato essa venga osservata, e dietro alla nera cover del disco si cela un universo di concetti stravolti e di orecchiabilità mista a pura sperimentazione… (Marco “Dark Mayhem” Belardi)
Parte II: I primi scampoli di follia.
Nel 1996, quando il fenomeno grunge trovava in dischi come “Down on the upside” dei Soundgarden il capitolo conclusivo della sua vita, nel lontano Illinois, mentre piccole realtà crossover come i Deftones e Korn crescevano, videro la luce i Mudvayne. Una band che sin dal primo EP di esordio,”Kill I oughta”, mostrò molte delle sue carte: un suono ricchissimo di potenza e melodia priva di fronzoli tecnici fini a se stessi, avanguardie futuristiche/schizofreniche e la strana idea, dovuta al limitato budget, di un trucco finalizzato a particolarizzare i componenti e colpire il pubblico. Nascono così, ossessionati dai lavori di Kubrick ed in special modo da “2001”, i primi pezzi, che oggi possiamo trovare in “The beginning of all things to end”, e che portarono velocemente i Mudvayne ad avere un buon riscontro dagli ascoltatori…e dagli amici.
“Kill I oughta” rappresentò al meglio uno spaccato dei Mudvayne molto particolare: nessun suono particolarmente patinato o vicino a qualche particolare standard, nessuna inflazione dovuta a pressanti etichette, ma solo un’anima ruvida, rabbiosa e personale di una creatura che, annaspando con fatica, proponeva i propri vagiti con vigore e grinta.
Copie degli slipknot?!?!?!?
Il piccolo aiuto del clown degli Slipknot, tempo dopo l’EP di esordio, si fece sentire e portò la band dell’ Illinois al contratto con una Major ma, le (pallide) coincidenze sonore e la (pallida) somiglia scenica (dovuta prevalentemente al trucco), creò un sacco di pregiudizi.
Effettivamente, l’esordio omonimo degli Slipknot uscì mesi prima di “LD50” e rappresentò, volenti e nolenti, una sterzata nel mondo della musica metal: i componenti mascherati attirarono l’attenzione prima ancora della musica, basata sul credo cyber-tribal death-post-industrial, e i Mudvayne, in modo non voluto, vennero accusati di seguirne una falsa riga dedicata al business ed alla vena modaiola crossover sempre piu presente (citiamo Linkin Park, Papa Roach e Limp Bizkit ad honoris causae). Ma “LD50” e “Slipknot” avevano un messaggio comune? La band, oltre l’apparenza, aveva un suono realmente accostabile? Dove e come si sarebbero evolute le band? “Iowa” (Slipknot n.d. Marco “Dark Mayhem” Belardi), uscito due anni dopo “LD50”, propose un suono ancor più estremo che portò parte del pubblico a ricredere nelle potenzialità della band mentre i Mudvayne, che furono anche i loro compagni di tournèe, rimanevano nel “garage” a studiare….
Simone Thrasher[XXX]
Parte III: Dosaggio letale 50
“LD50” non fu un disco particolarmente storico per il genere e, nonostante la qualità del genere proposto, venne sottovalutato sia da molti specialisti del settore che dalla parte del pubblico meno aperta ad un tipo di sonorità non legato ai padri dell’heavy metal, che ormai accusavano da anni la falsità della presunta “innovatività” del Nu metal. “Dig” fu uno dei principali fattori che portò il disco all’incomprensione, un pezzo talmente diretto, violento, compresso e digeribile che fece nascere in pochissimo tempo nuovi e gratuiti paragoni con i nove pazzi dello Iowa; il video di questa canzone arrivò ad ottenere un’ottima programmazione su MTV (mossa speciale della casa discografica…) e, sempre su questa fantomatica rete, venne assegnato un premio alla band.
I valori dei Mudvayne vennero fondamentalmente travisati e riconvertiti secondo usanze dettate dal business: “LD50”, come si vedeva nel retro del disco, era un contenitore di qualcosa e “Dig”, il tappo, rapprensentava soltanto l’elemento più appariscente, ma NON il principale del disco. L’album, che venne partorito insieme a Shawn “6” Crahan (Slipknot), avvalendosi di una produzione eccelsa che non fu in questo caso la migliore per far risaltare le capacità della band, mostrò l’evoluzione sincopata e compressa di “Kill I oughta” ora attraverso virate psichedeliche in puro stile Tool-iano, ora lasciando scorrere il delirio intellettuale e futurista della band verso riminescenze Kubrickiane degne del miglior “2001”. I Mudvayne, fondamentalmente, scrissero un disco poco digeribile, esclusa la mosca bianca “Dig”, riuscendo a farlo passare come il più commerciale e ascoltabile disco dei Backstreet Boys: geniale sotto certi punti di vista, ma l’incomprensione non paga nessuno.
Simone Thrasher[XXX]
“LD50” ha un grossissimo difetto: quello di essere uscito in un anno, il 2000, non affatto favorevole per chi pensava di imbastire una concorrenza ardua e resistente nei confronti dei Signori del crossover. Dovendo stilare una lista della letale concorrenza, vi inserirei il boom degli Slipknot, le uscite griffate Deftones, Disturbed, Linkin park, Soulfly. Persino Taproot, e tanto underground. Insomma, in definitiva, che Terry Date stesse producendo il disco giusto nel momento sbagliato? A molti non è parso affatto così: i Mudvayne, sottolineando l’importanza dell’apporto che un nome di prestigio come quello del clown slipknottiano Shank poteva donar loro in sede di appoggio pubblicitario, hanno egualmente lasciato il segno. Il lavoro ha svenduto, ha diramato canzoni come “Dig” o “Cradle” sin laddove la mente dei fan più accaniti non potevano concepire un insediamento immaginario, ed ha stimolato la curiosità degli scettici. Il risultato di una mossa così azzardata ma allo stesso tempo fruttuosa è stato il consueto. Nessuna novità: l’audience si è divisa in due tronconi. Il primo, sull’onda della hit “Dig”, ha acclamato i nomi situati dietro alle carismatiche maschere dei quattro, notando una sezione strumentale preparatissima anche senza l’apporto dei cinque musicisti in addizione di cui il nutrito combo degli Slipknot dispone; il secondo ne evidenziava l’inconsistenza, tenendo in mano un mandato d’accusa con sopra stampati i minacciosi pentagrammi di Corey Taylor e soci. Ebbene no, i Mudvayne non hanno un Corey Taylor in formazione. Nè un Joey Jordison, se è per quello, ma i nomi che ne sostituiscono la sezione strumentale relativa sono, rispettivamente, i seguenti pseudonimi da battaglia: Chud, un maestro sul cantato pulito che nulla, neppure il groove, ha da invidiare al cugino dello Iowa, ed il drummer Spug, elemento privo di una militaresca sezione percussionistica in supporto che, nonostante ciò, non fa rimpiangere di certo Jordison ed il suo successo (recentemente approdato al glam con il bellissimo debut dei Murderdolls). Ma perchè nominare continuamente gli Slipknot? Ve lo starete domandando, forse, ed effettivamente ammetto che certe volte, per scovare i punti deboli di una cosa diabolica, bisogna giocare al suo gioco. Chi sostiene che i Mudvayne siano una mera copia degli Slipknot capirà di errare solo parlandone, osservando diligentemente i punti di contatto (assai pochi) fra le due formazioni, e sotterrando pergiudizi. Ma chi sono, allora, i Mudvayne? Nu metal mainstream con riflessi tooliani, una tecnica sopraffina, e riferimenti a Staind, Sevendust, ed altre numerose line-up che dal successo sono passate prima di loro? No. I Mudvayne di “LD50” sono una creatura germinante, ricca di idee ma incapace di assemblarle tutte al meglio. Una polveriera che sta per esplodere, in positivo, e l’esplosione potrà ferire molto i cugini, lontani o vicini che essi siano. Come poter verificare tutto ciò? Con “The end of all things to come”, ovviamente. Commerciali, complessi, catchy, introspettivi. Ma dannatamente immaturi nella loro pur cristallina bellezza esecutiva.
Marco “Dark Mayhem” Belardi
Parte IV: Live Act
“I Mudvayne non sanno suonare”: questa è una delle frasi che, insieme a “I Mudvayne sono le copie degli Slipknot”, mi capitò di leggere e sentire più frequentemente tra i vari responsi ricevuti dalla band. Mai più grande bugia fu raccontata. Personalmente, vidi i Mudvayne in quel di Milano due anni fa, dove aprirono le danze per Slipknot, Amen e Static-X, e constatai, nonostante lo scarso supporto scenico, che la band mostrava dal vivo un’innata capacità nel ghermire palco e pubblico. La band dal vivo suonò con il cuore e con la tecnica: ricordo che, oltre il suono sporco e “grasso” del chitarrista, i Mudvayne impressionarono per l’estrema precisione della sezione ritmica e il cantante, che in “LD50” alternava goliardicamente growl e melodia, dimostrò non solo un’estensione notevolissima ma anche una versatilità pazzesca. I Mudvayne furono dei veri animali da palco: un turbine che, seppur dotato di poco volume e scarsa scenografia, riempì la sua esibizione con uno stile e un tiro da non sottovalutare e da godere senza indugi in una futura esibizione da headliner. Fondamentalmente, uno dei gruppi migliori che abbia visto suonare, in quanto hanno saputo emozionare, divertire, intrattenere e suonare alla perfezione.
Simone Thrasher[XXX]
Parte V: I punti di distacco
Continuiamo nel nostro tormentone di raffronto fra Slipknot e Mudvayne. Avendo chiamato questo capitolo “I punti di distacco”, mi accorgo subito di aver commesso un errore. Ma non intendo per questo cancellarlo. Ebbene si, chiamare questo capitolo “I punti in comune” sarebbe stato assai più astuto: avrei risparmiato tempo, dovendo descrivere pochi concetti, ed avrei limitato così molte cose su cui avrò invece voce in capitolo. I Mudvayne e gli Slipknot sono due realtà diverse, distanti, non propriamente opposte. Partendo dagli Slipknot, si può subito esaminare che, sin dai tempi del debut “Mate. Feed. Kill. Repeat.”, i nove musicisti dello Iowa hanno sempre tenuto a sottolineare due concetti: violenza, rabbia. Una violenza sciorinata sul pubblico, con concerti a base di stage diving, headbanging violento, fuochi sul palco ed iconoclastia. Una rabbia espressa in musica, sino al punto in cui, su “Iowa”, gli Slipknot si sono messi a tributare gli Slayer, adottando però accordature da Death metal, e fondendo crossover, metal estremo, quantità ingenti di elementi presi in prestito dai Sepultura di metà corso (“Chaos A.D.” docet). Il pittoresco make up a base di maschere, trucco a coprire gli elementi di riconoscimento dell’identità dei singoli e tute da lavoro, infine, ha personalizzato la band con il risultato relativo ad idolatria comune e grandi responsi a venire. Cosa vi è, nei Mudvayne, di tutto questo? Francamente, se la vostra idea è che una band possa esser clone di un’altra solo a partire dall’acconciatura, ed a prescindere da tutto il resto, allora dovreste farvi un esame di coscienza più pietoso che volutivo. Come ha sottolineato Thrasher[XXX], le visioni Kubrickiane sono state spesso un denominatore comune delle opere griffate Mudvayne. Psichedelia, follia d’autore, e non urla che riversano sul pubblico torrenziali “fuck”. Tanta intelligenza, o follia geniale. Cose che, francamente, non si vendono a peso, e che non si reperiscono in prestito altrove se non dall’estro compositivo dei compagni di formazione. Questo sono i Mudvayne, una versione meno furiosa e concettualmente intelligente del crossover estremo lanciato dagli Slipknot, ma con pochi punti di contatto – se non i vocalizzi, talvolta animaleschi, di Chud – con esso. Giudicare il monaco dall’abito è un errore. Farlo dopo aver analizzato cosa vi è oltre i simboli impressi sull’abito, è perseverare su un principio sbagliato imbastito per partito preso. I Mudvayne non sono cloni degli Slipknot, con tutto il rispetto dovuto per quella gran band che è in mano a Taylor e Jordison.
Marco “Dark Mayhem” Belardi
– THE END OF ALL THINGS TO COME –
Parte VI: The end of all things to come
Titolo:The end of all things to come
Label: Sony Music – Epic
– Recensione di Simone “Thrasher[XXX]”
Dopo il contorto – ma breve – cammino intrapreso nello speciale siamo arrivati, finalmente, alle valutazioni di quest’ultimo lavoro del quartetto dell’Illinois. Un lavoro che a mio avviso traccerà realmente la “retta qualitativa” dei Mudvayne: sarà un linea crescente o in pieno declino ed in sintonia con Nonpoint, Staind, Limp Bizkit e gli esordienti Soil? Inizio subito con l’affermare che pochissime band nu-metal, vedesi Korn e System of a Down, hanno saputo attraverso gli anni migliorare il proprio suono senza fossilizzarsi in clichès inutili e loop stereotipati, mentre “The end of all things to come” riesce a centrare sicuramente un’obiettivo fondamentale: l’evoluzione.
Quello che abbiamo di fronte non è più il gruppo di puri finto-intellettualismi e di rimandi kubrickiani del vecchio “LD50”, ma una band possente, dotata di un gusto, stile e potenza fuori dal comune e dai parametri di valutazione. Il disco suona così perfetto e pulito da rimandarmi subito al paragone con il fortunato “Toxicity”: stessa compattezza sonora, nelle matrici pesanti, e stesso estro unico e inimitabile. I Mudvayne, a mio avviso, sanno andare ben oltre. “The end of all things to come”, un’avvertimento molto ben azzeccato, non è un semplice tormentone che, dopo un’impatto positivo, scompare senza lasciar tracce: “Trapped in the Wake of a Dream” (dai grandiosi controtempi), “World so Cold” (l’esatto miscuglio di melodia e di ‘inorecchiabilità’) vi spingeranno ad apprezzare questo album piu’ a lungo di quanto possiate immaginare. Ovviamente, non mancano gli specchietti per le allodole: l’anima morente di “Dig” ricompare in pezzi come “Not Falling” e “Silenced”, forse un difetto ma anche un lato dei Mudvayne che non può essere nascosto e che va apprezzato. Non ho idea di cosa penseranno i vari esteti della tecnica, d’altronde non stiamo neanche parlando di un disco didattico, ma le capacità della sezione ritmica mettono i brividi, come già dimostrato nei live, confermandosi come il ruolo primario nell’organizzazione dei Mudvayne. Non mancano episodi di “quasi-vero-metal” come in “The patient Mental” o fasi più sperimentali come nell’omonima canzone del disco. Riassumendo, questo secondo capitolo dei Mudvayne è un disco di eccezionale qualità, capace di mischiare tonnellate di melodie non Mtv-oriented, ma sempre più o meno orecchiabili, con suoni violenti e uniformi, e ci consegna una band che non copia nessuno e che risulta dotata di un genio ed un gusto che ha ben pochi rivali.
Voto: 9
Simone Thrasher[xxx]
– Recensione di Marco “Dark Mayhem” Belardi
Dopo l’uscita di “Toxicity” dei System of a down, disco che ho apprezzato solo con l’incedere del tempo forse a causa del dilagante e contemporaneo successo degli Slipknot (dal quale ammetto di essermi fatto trascinare senza alcun problema, causa il fantastico calderone di violenza sonica avente con sè il nome “Iowa”), ho iniziato a pensare con certezza che il crossover, dal canto suo, non sarebbe più stato definibile come un semplice miscuglio di generi attitenti al Rock più o meno duro, ma che i suoi artisti, malcontenti dinanzi a speroni limitativi di qualsiasi tipo, si sarebbero presto messi in linea con i più creativi di loro al fine di lacerare ogni plausibile barriera compositiva di qualsiasi genere. Le ‘prime’ avvisaglie di rilievo le avevan fatte intendere i Tool, che dopo aver strabiliato un po’ tutti con “Aemina” si sono concessi un bis alquanto altezzoso e rischioso – vedesi “Lateralus” – pur non mancando il successo. I System of a down, mentre gli Slipknot cercavano soluzioni votate alla violenza ed al furore compositivo, puntavano tutto su di un ironico stravolgimento del crossover, facendo dimenticare perle come “Around the fur” dei Deftones grazie a un capolavoro assoluto chiamato “Toxicity”. A quel punto, quanto sarebbe venuto dopo non mi avrebbe affatto sorpreso, qualunque cosa sarebbe di lì in poi nata o morta con lo scorrere della storia della musica Rock. Ma i Mudvayne, nel 2002, sono in vena di scherzi: dopo averci iniettato un dosaggio letale di musica pesante e contorta (niente metafore, trattasi semplicemente del titolo del loro disco precedente, “Lethal dosage 50”, ribattezzato dunque “LD50” in sede di intestazione), questi hanno finalmente affilato le baionette, rendendone maggiormente micidiale e velenoso il tiro. “LD50” vi era parso immaturo nonostante vi fossero presenti idee degne di artisti in crescita ideologica esponenziale? Bando alle ciance, il momento dell’acquisto è giunto alle porte, poichè il mese di novembre, come spesso accade, pullula anche quest’anno di uscite di rilievo che stravolgeranno ogni vostro pronostico sulle consuete e fantomatiche classifiche contenenti i dischi d’annata da voi preferiti. “The end of all things to come”, come un fulmine in un cielo costellato dall’Heavy metal di buona fattura uscito prepotentemente quest’anno a suon di Stormwitch, Paragon, Messiah’s kiss e chi più ne ha più ne metta, è finalmente giunto, assieme ai suoi quattro audaci autori d’oltre oceano, alla fatidica e temuta prova della verità. Chiamatelo pure Nu metal, ma non è della stessa e mielosa pasta di quello che irrora il sound di Linkin park, Staind ed Orgy. Verrete in tal senso smentiti. Optate dunque per “crossover”, la maliziosa definizione dietro alla quale, sovente, si celano tutti i lavori Rock che i recensori faticano a descrivere. Io così lo chiamerò, ma lo descriverò, senza pur rovinarvi sorprese e quanto altro un prodotto di tal caratura possa sprizzare. Le fonti di prospettiva dalle quali il quartetto attinge maggiormente calano tutte quante nella prima metà del decennio scorso: Guug rende affini alla ‘sua musica’ un Metalcore violentissimo ma regale e pulito, ed allo stesso tempo vi instaura riffs crossover ricchi di stoppate, controtempi, soluzioni aliene per chi cercherà quattro quarti in abbondanza e musica da usa e getta. Materiale da far rabbrividire i fans dei Tool. E quando si nominano Maynard e soci, negli occhi di chi ascolta certe definizioni risplende sempre la parola “qualità”. Di qualità, “The end of all things to come” ne ha tanta. Ma francamente, al primo ascolto ero rimasto quasi spiazzato, come se non notassi particolari differenze fra i vari pezzi in esso incastonati. Divergenze che, già al terzo ascolto, erano ampie come abissi. Chud, singer della formazione, è il principale artefice di questa miscela esplosiva a base di idee artistiche pure e deliberatamente proprie: i suoi vocalizzi, accompagnati dai backing vocals dell’ axe-man Guug, risplendono ed evocano ora violenza, ora emozioni colorate e dalle tinte sempre diverse. E’ davvero il caso di dirlo, poichè se la prima parte del disco innaffia di suoni aggressivi l’ascoltatore, un pezzo come “World so cold” gli mostra visuali della band sinora ignote: fraseggi cadenzati, un gusto chitarristico eccelso ed una versatilità canora, quella di Chud, che non mostra pari. Un duello, quello fra lui e Corey Taylor, che finisce con due vincitori e due vinti. Corey lo batterebbe sul growl, il frontman dei Mudvayne avrebbe la meglio sul groove, entrambi risulterebbero campioni su ogni frangente. Ma smettiamola di mettere nel mezzo i nove di Des Moines, e volgiamo lo sguardo al profondo dell’Illinois. I Mudvayne, a soli due anni di distanza da quel particolarissimo “LD50” – che accoppiava l’easy listening di “Dig” e “Cradle” a materiale pressochè inascoltabile – , non sono più loro, pur portando avanti un discorso intrapreso nel lontano 1996. Spug, il drummer, mostra soluzioni dal gusto progressive, rivaleggiando ad armi impari con l’amato-odiato cugino Jordison (dotato di un supporto percussionistico di certo non indifferente), e non finendo per perdere lo scontro. Il basso di Ru-D crea scompiglio nelle retrovie ritmiche, risaltando essenziale in “Skrying”, e dominando spesso le ritmiche; infine, la produzione di David Bottrill (eseguita nei medesimi studios di Minneapolis ove i Nirvana realizzarono “In Utero”) emana perfezione da ogni lato essa venga osservata, e dietro alla nera cover del disco si cela un universo di concetti stravolti e di orecchiabilità mista a pura sperimentazione. Il giusto bilanciamento, questo, da relegare a lavori vincenti. “The patient mental”, a refrain prettamente ‘americani’ e di facile assimilazione affianca psichedelia e Metal puro; “Not falling” (per la quale è stato realizzato anche un video, in cui i protagonisti si cimenteranno sprovvisti di alcuna maschera) si impone come uno dei migliori episodi del lotto intero, e Chud, spesso e con facilità disarmante, finisce per apparire come una sorta di Maynard estremizzato ogniqualvolta egli venga ad intraprendere il meticoloso ed obbligatorio innesco delle clean vocals. Una missione vinta in partenza, che anzichè terminare ogni cosa a venire – come il titolo dell’album suggerisce – rischia di dar luce a nuovi corsi. Un disco che potrebbe venir snobbato in principio, ma che reputerei tranquillamente come uno dei più sgargianti e completi lavori usciti in campo crossover dal duemila ad oggi. Il confronto con il rivale d’eccellenza “Toxicity”? Impossibile. La realtà dei Mudvayne è più visionaria, cupa, introspettiva e seriosa. Ed anzichè scoprire hits su hits, starà a voi scovarle nel corso degli ascolti. Vi assicuro solamente una cosa: “The end of all things to come” ne pullula.