Morte interna – Worlds and borders of woe

Torna il progetto Morte interna di Giovanni Chieli, ancora privo di un contratto discografico, e lo fa nel più bizzarro dei modi. Chieli, su questa terza auto produzione intitolata “Worlds and borders of woe”, ha infatti riproposto tutto il materiale precedentemente apparso su “Worlds too can be transplanted” e “Sit up on the border” (lavori di cui vi consiglio di leggere le rispettive recensioni per ogni eventuale delucidazione) registrando nuovamente tutto ciò che comportava i tasselli musicali della prima delle due demo, la più immatura. I pezzi di “Worlds too can be transplanted” appaiono adornati da una nuova veste sonora (sebbene vada precisato che il cambiamento non è stato propriamente radicale), che li mantiene fedelissimi a sè stessi ma ricollegabili, per produzione e svolta sonora, a quanto messo in mostra sul successivo disco. Ci troviamo quindi in contatto con tredici pezzi che riassumono l’opera musicale di Chieli ed il relativo one-man project, attivissimo ed autore di tre dischi in un lasso di tempo relativamente più che breve. E se la mossa potrebbe venir giudicata inefficace, essa si mostra caparbia e valida sul punto di vista della riuscitività: Chieli porta i brani di “Worlds too can be transplanted” quasi sul livello qualitativo di quelli di “Sit up on the border” (curiosa, peraltro, l’unione di parole componenti il titolo del primo lavoro con altre tratte dal secondo, il tutto a formare questo particolarissimo pentanomio), disco che continuo a preferire al primo citato, raggiungendo e quindi superando la sufficienza su entrambi i frangenti. Le influenze, per chi non avesse sentito parlare di Chieli in tempi più o meno remoti su queste stesse pagine, uniscono rischiosamente il lato più grezzo e minaccioso dell’industrial, di cui troviamo inserti percussionistici, suoni cavernosi ed i ritocchi tipici del settore, all’anima più oltranzista e minimale del black metal, rappresentato qui dai suoi artisti più folli e sperimentatori, aka Varg Vikernes ed Abruptum. La lentezza pervade e dilaga su tutta la durata dei due dischi, le percussioni si presentano come il lato più interessante – assieme ai vocalizzi, dilanianti e marci – delle composizioni, e “Worlds and borders of woe” si propone abilmente come il riassunto della sinora corta carriera di un artista caparbio ed insistente che, per piccoli passi, sta sempre più guadagnando terreno verso una formula più precisa e d’impatto. L’ascolto di questo disco è veramente difficile, ostico, consigliato solamente ai veri oltranzisti della musica ed a chi non ha paura ad imbattersi con sonorità criptiche e feroci, per cui ad un primo ascolto tutto potrà apparirvi celato dietro ad un muro di suoni chaotici privo di una vetta da raggiungere attraverso la quale sarebbe poi possibile scandire il vero significato di questi tredici pezzi. Non c’è limite all’estremismo ed ai suoi presunti concetti, e Chieli ce l’ha ancora una volta provato.