Marilyn Manson – The golden age of grotesque

Marilyn Manson è il capro espiatorio, a turno insieme ai vari Linkin’ Park, Limp Bizkit e Slipknot, della frustrazione di tanti ragazzini metallari poco dediti ad altro tipo di pippe che non siano mentali. Ben pochi hanno però ben chiaro in testa che Brian Warner uomo, a differenza di tali ragazzini, è fortemente testicolo-dotato, e ciò si riflette nel suo personaggio con cerone e lentine colorate. Uno dei personaggi fondamentali della musica degli ultimi 10 anni ci ripropone ancora una volta il suo personale e inimitabile show in questo buonissimo “The Golden Age Of Grotesque”, titolo molto evocativo. In generale ci troviamo di fronte ad un disco ineccepibile, perfetto in tutti i suoi elementi, con giuste proporzioni tra dosi d’elettronica e rock and roll, melodia e parti incazzate, e che sa ripescare a piene mani dal proprio glorioso passato. Forse è questo il difetto più evidente di questo disco, pur essendo dal mio personale punto di vista una manna dal cielo (son da sempre in attesa di un “Antichrist Superstar II”). Il disco ha un tiro micidiale e contiene moltissimi hits che vi faranno dimenare il culo a spron battuto e senza sosta, ma non trovo più la voglia di osare che c’era in “Antichrist Superstar” o in “Mechanical Animals” e questo per il personaggio Marilyn Manson è il peccato peggiore. Musicalmente il disco ripresenta per la maggior parte il Manson di “Antichrist Superstar” spogliato di malignità, nichilismo e frustrazioni varie, in sostanza delle componenti principi di quel disco, ma arricchito di verve rock and roll e glam elettronico che invece erano i punti di forza dei successivi nonché ultimi due dischi del reverendo. “Mobscene” ne è l’esempio lampante con quei coretti glam fatti da bambini e la verve rock di un pezzo come “The Fight Song” del precedente “Holy Wood”.
Non mi va di citare pezzo per pezzo, in quanto da un parte finirei per dire sempre le stesse cose e dall’altro vi posso assicurare che non c’è una sola canzone brutta o insignificante. Menzioni particolari vanno alla title track che a tratti mi ha riportato alla mente, e per il suo mood esoterico e decadente e propriamente per il suo incedere, la magnifica cover di “I Put A Spell On You” presente su “Smells Like Children”, la bellissima “Slutgarden”, dal ritornello corrosivo che ti si ficca in testa e non vuole più andare via; per gli stessi motivi sono da ricordare la successiva song che ha per nome il simbolo di picche e “Vodevil”, semplicemente lasciva. Forse però il picco maggiore è raggiunto con “Para Noir”, song tutta giocata su una latente eppure pregnante tensione, dominata da un incedere lento ed ipnotico e che in alcuni punti diventa quasi psichedelico (sentite l’assolo). La song sembra un outtake, validissimo, di “Antichrist Superstar”. In definitiva questo disco si pone come uno dei migliori della carriera del reverendo ed è un disco che può veramente piacere a tutti avendo tutti gli ingredienti giusti. Cosa dire? Ancora una volta il reverendo ha ragione e i fessi son quelli che perdono tempo a criticarlo invece di andare filato di corsa a comprarsi la sua discografia. L’eccessiva fruibilità della proposta (“commercialità” per i detrattori) può disturbare i fans della prima ora come me, ma in definitiva il disco è buono. Ah, un’ultima cosa, Manson è oramai parte di un sistema che voleva distruggere e che invece ha finito per divorarlo. Godetevi i frutti di tutto questo, senza rimorso.