Machine Head – Through the ashes of empires

Anno domini 2003: 10 anni di presenza sulla scena, 5 dischi, 1 live, 2 persone costanti all’interno della band e continue evoluzioni stilistiche. Obiettivo primario: le origini. Robb Flynn inizia ad assumere i connotati del genio del pre e post numetal dimostrando che passare attraverso le “main rotation” non mortifica l’animo artistico di un gruppo di questo calibro. Se mentre in Burn my eyes e The more things change erano stati definiti “troppo panterosi”, visto che nel 1994 la moda Pantera era contagiosa (vedesi Extrema), e in The burning red e “Supercharger” erano etichettati “troppo numetallici e venduti”, questo disco è paradossalmente abnorme. Cosa ci troviamo di fronte? La copia di Burn my Eyes esperta e pompata. Doping all’ordine del giorno, gusto e stile. Un’assalto frontale unico nell’intero arco del 2003, anno in cui tutti gli alternativi estremi hanno dimostrato fiacca e stanchezza causa la definitiva povertà innovativa del nu-metal (nominiamo Spineshank ed Ill nino per la par condicio sull’etichetta). La Roadrunner dimostra ancora una volta che le cose buone arrivano non dai loro “annusati fenomeni del primo disco” o da chi si finge “la band più estrema del pianeta nuovo metallo”, ma da una rodata band che con “Through the ashes of empires” conferma la sua statura assoluta nel panorama metal. Imperium è l’analogo della “Davidian” di 9 anni fa: una promessa mantenuta attraverso tutto il disco, che vede alternarsi pezzi come “In The Presence Of My Enemies”, “Vim” e la post-“superchargeriana” Elegy senza mai dimostrare segni di cedimento. Tonnellate di Thrash. “Through The Ashes Of Empires” contiene tonnellate della rabbia primitiva che caratterizzavano i riff di Burn my eyes e le amare melodie, testimone del passato Supercharger, si susseguono senza la finalità di stabilire il nuovo singolo o la nuova hit per Mtv. Ogni traccia contiene l’esperienza dei Machine Head, ogni traccia è testimone di ogni singolo capitolo evolutivo della band, in ogni anfratto sonoro è possibile riconoscere lo stile compositivo di Robb Flynn e la timbrica di questa gigantesca band: immaginate l’impatto thrashy e gli arrangiamenti di Burn my Eyes, la produzione di The more things change e alcuni richiami melodici a Supercharger. I Machine Head si confermano la band geniale e capace che conoscevo riuscendo a dare una conferma mastodontica, ad un punto così delicato della carriera, in un disco che mostra tutto ciò che un fan di vecchia data aspetta. Chi non apprezzerà un lavoro del genere? Chi si aspettava delle pere da un albero di mele. La band di Seattle (l’ ultima decente della città d’oro del grunge?) gioca con sè stessa, con le proprie caratteristiche, con i propri nei e i propri pregi… Grandi.