Dopo un passato trascorso con Warrior Soul e Space Age Playboys, Kory Clarke giunge al primo appuntamento con un disco solista, e la bizzarra intro “Jihad VS McWorld” sembra quasi sintetizzare il caos regnante all’interno dell’album, quasi incerto nelle coordinate stilistiche da seguire: si passa dagli spunti beatlesiani di “Corporate Genocide” all’uso di un elettronica a volte fuori contesto che svilisce brani come “Yummy House” o “The City Today” e purtroppo sin dal primo ascolto si fa notare in negativo la produzione volutamente e, forse esageratamente, lo-fi, che mina le potenzialita del disco ed anche la carica rock e animalesca di brani come “Without Guns”, “Reverse” e “Religion Buzz”, quasi affogati dalla scelte di suono effettuate, e che assieme ai frammenti minimalisti ed a tratti ambient di “Dream Japan” o di “Sky High” sono tra i momenti più convincenti del disco. L’influenza beatlesiana risuona ancora nella title-track, ballad folkeggiante scarna ed essenziale, un altro dei pochi brani salvabili, cosa che non si può dire per l’imbarazzante “Penguin Song”, per “Boom Ka Boom”, dai toni apocalittici, o per “Another War”, conclusivo spoken word che getta più ombre che luci sull’intera opera. “Opium Hotel” si rivela un disco dominato da una forte confusione stilistica, con alcuni spunti sì pregevoli, ma decisamente non sufficienti a giustificarne l’acquisto.