Altro giro, altro capolavoro. Se dovessi classificare il 2002, lo inserirei mestamente fra le annate di transizione, ovvero fra quella categoria di anni in cui, sinceramente, i nomi grandi hanno parzialmente deluso, lasciando spazio – per la sezione “capolavori” – a coloro dai quali, sinceramente, non ci si aspettava nulla di tutto ciò. Ed è così che, dopo i trionfali dischi non-nostrani di King Diamond ed Arcturus, ed in attesa delle future prove di Opeth e Nevermore, mi accingo a scoprire un’altra fetta nascosta dell’Italia, i Karnak. “Melodies of sperm composed”, loro seconda prova in studio – nonchè successore di “Perverted”, del 1997, prodotto quando la band aveva da poco mutato il nome da Obscenity in Karnak – è una di quelle gemme che tanto clamore suscitano al momento del loro ascolto, ma che poi, a causa della difficoltà intrinseca dei loro stessi brani, finiscono per dividere la folla ed attirarne a sè solo una minuta porzione. Il prodotto dei Karnak, a dispetto delle varie band emulatrici presenti in circolazione, espone la perfetta fusione fra America ed Europa: il death metal tecnico e novantiano della prima, l’oscurantismo e le atmosfere della seconda. Il primo frangente citato si propone su più lati: i Death di Chuck Schuldiner sono citati nelle fasi più immediate del disco, nel chitarrismo ritmico di Gabriele, ed in certi lead della sei corde messi in gioco sul disco; in larga scala, invece, appare la migliore jazz-fusion, unita al death metal come l’arte del death sperimentale della scorsa decade ha sinora comandato: Cynic ed Atheist sono i nomi più popolari che compaiono implicitamente citati (Masvidal pare sempre dietro all’angolo, specialmente per l’intricatezza delle sezioni, proposte sempre in maniera modernista ed in qualche modo pur rimandante al passato del genere), mentre per le atmosfere implicate ed il sovente uso di sezioni tastieristiche pare di trovarci dinanzi ad un lavoro degli ultimi Pestilence (“Spheres” in primis). Tuttavia, in “Melodies of sperm composed” ci troviamo dinanzi ad una miscela di influenze che, alla fine, risulta personalissima e non troppo dipendente da nomi particolari. Voci recitate ora darkeggianti, ora pulite, tastiere di stampo simil-gotico, un solismo ora dai richiami alla James Murphy (ex Obituary, naturalmente), ora più accostabile a quello melodico dello Schuldiner di “Symbolic” od alle ricercatrici asce dei Cynic Masvidal-Gobel. In poche parole, una perfetta trasposizione di ciò che è stato il glorioso death metal jazzato e sperimentale americano in chiave europea, con tanto di soventi sfuriate batteristiche (il lavoro effettuato da Stefano è incredibile sotto ogni punto di vista, dalla potenza alle sezioni più tecniche) in blast-beats e rallentamenti sul metronomo del rullante con incredibili passaggi sui piatti degni del migliore percussionismo jazz. Sentire una band che rende così malleabili terreni stilistici difficili come questi, sinceramente, fa veramente paura in relazione allo scarso peso spesso dato alla scena italiana. Ennesimo trionfo del prog-death, ed un disco che, in definitiva, si propone come la migliore release italiana in campo death di quest’anno – assieme ai Nox perpetua, of course – , anche oltre la validità della release dei Node. Inutile imbattersi in una review track-by-track: ascoltate e giudicate voi stessi, sempre che la distribuzione dei dischi che c’è in Italia ve lo permetta.