Immolation – Harnessing ruin

Sugli Immolation si potrebbero dire un sacco di cose… che il loro miglior disco -“Dawn of possession”, se qualcuno avesse dubbi- è pressochè introvabile, oppure che dopo un momentaccio vissuto a metà degli anni ’90 la band è riuscita a risollevarsi, fino a toccare nel 2000 il secondo “apice” della sua carriera, “Close to a world below”. O magari che questa band è terribilmente sottovalutata, da alcuni in merito a presunte ed eccessive somiglianze coi Morbid angel, da altri sempre per il solito fatto che “Here in after” e “Failure of the Gods”, ahimè, grandi episodi non lo sono stati. Bando alle ciance, “Harnessing ruin” un mesetto fa lo consideravo un dischetto nel quale riporre ben poca speranza, sicuro che dopo il discreto “Unholy cult” la band avrebbe continuato a proporci all’ infinito album di una certa caratura, ma non di certo memorabili. E ora rimpiango di aver pensato in quella direzione. “Harnessing ruin”, in data 21 marzo 2005 (giorno in cui ho scritto questa recensione), lo considero il miglior capitolo discografico partorito dall’ intero circuito Metal nel corso di quest’ annata sinora povera di uscite realmente emozionanti. Ed anche il miglior capitolo discografico targato Immolation, subito dopo il vincitore ai punti, ossia il succitato ed imbattibile “Dawn of possession”. Ebbene sì, gli Immolation stavolta hanno fatto le cose in grande, e mantenendo ben intatto il loro trademark hanno composto qualcosa che, ai Morbid angel attuali, sarebbe sicuramente piaciuto realizzare al posto di quello scialbo prodotto senz’ anima che corrisponde al nome di “Heretic”. Un “usa e getta” che, col massimo rispetto per una delle mie band preferite di sempre, per quanto carino è pur sempre considerabile il peggior disco della nutrita discografia di Azagthoth e soci, nel periodo avente per estremi le lettere A ed H. “Harnessing ruin” sotterra appunto i ben poco ispirati Morbid angel di oggi, che sembrano essersi appigliati per disperazione al rientrante David Vincent al fine di risalire, nel futuro prossimo, perlomeno ai livelli di qualche anno fa. Ma torniamo in-topic: che ha di così particolare e meritevole “Harnessing ruin”? Ha che, dopo un disco preconfezionato e che sapevo già come suonava ancor prima di metterlo nel lettore, ossia “Unholy cult”, Robert Vigna e soci, in questa circostanza si sono stravolti, reinventati. E nel 2005, in piena era “il nuovo disco deve suonare più pesante dei precedenti, o perlomeno sembrarlo”, hanno composto un’ opera malvagia e che col passare degli ascolti non ti da’ modo di sentire altro. E che al primo passaggio, sembra semplicemente – dunque, attenzione a giudizi affrettati – un secondo e ammorbidito capitolo di “Unholy cult”, riuscito con altrettanta sufficienza, e nulla di più. “Harnessing ruin” è il disco più leggero degli Immolation: suoni impastati e potenti, un drumming ad opera del nuovo entrato Steve Shalaty che a dire il vero non differisce molto da quello di Alex Hernandez (vedi le similitudini nell’ uso dei Tom), ed influenze che vanno oltre il solito Death Metal trito e ritrito, in merito del quale s’è detto di tutto e di più. Quasi la metà delle canzoni di “Harnessing ruin” presenta qualcosa di inedito: “Our savior sleeps”, così come altre 2-3 tracce del lavoro, mostra infatti richiami più “Rock” che strettamente Death Metal… e sono cose che dovete sentire per capire, poichè una descrizione del genere potrà sembrarvi assai fuorviante. Arpeggi, tempi di batteria groove, lead di chitarra atipici per mostri nati praticamente in contemporanea con fenomeni quali Malevolent creation o Deicide… Ma non pensate per questo che Ross Dolan e soci si siano improvvisamente “venduti”… “Harnessing ruin” è marcio, geniale, pesantissimo seppur coadiuvato da una produzione tutt’ altro che potente. Unico. Ed è qualitativamente eccelso dalla prima traccia “Swarm of terror”, sino alla conclusiva “At mourning’s twilight”. Passando per le canoniche “My own enemy” e “Crown the liar”, semplicemente stupende, o per brani innovativi ma allo stesso tempo infarciti di una matrice che vi suonerà familiare se seguite la band anche da uno o due album, come accade nel caso di “Son of iniquity” e “Dead to me”. Semplicemente da avere, ma soprattutto da ascoltare con calma, e senza la pretesa di capire ed apprezzare tutto al primo passaggio… Specie se vi siete ridotti a sbavare per ogni Brutal Death Metal band come oggi ne nascono tante, fin troppe (chiedete il perchè alle etichette che non fanno alcuna selezione), con una marea di riff, di tecnica e di brutalità da inserire nei rispettivi new-album, e con troppa poca classe, personalità e feeling.