Hatebreed – The rise of brutality

La reputazione degli Hatebreed ruota indubbiamente attorno alla loro stessa coerenza. Che per alcuni sarà anche manna che piove dal cielo, nonostante in molti non faticheranno a sceglierla come il principale difetto della band capitanata dal buon Jasta. E se una recensione rappresenta un qualcosa di altamente soggettivo, lo è ancor di più se l’ articolo riguarda un disco degli Hatebreed: come i passati, oppure come il presente “The rise of brutality”, l’album del definitivo salto di qualità dettato da una distribuzione impeccabile ad opera di Universal e, nel nostro continente, Roadrunner. E, diciamolo, una Thrash-Core band – e tantomeno gli Hatebreed che, concedetemelo, sono un tantino sopravvalutati – non sarebbe mai arrivata a firmare contratti del genere se lo stesso Jasta, conduttore di un programma su MTV e dirigente di un’ etichetta discografica, stando a ciò che riporta la famigerata press-bio diramata da Roadrunner Records, non avesse avuto tutti questi provvidenziali agganci nel settore del business musicale. E gli Hatebreed, sottolineamolo, non sono gli Slayer. Sono una band che compone dischi ‘onesti’ e godibilissimi, che si esauriscono nel giro di una mezz’ora scarsa, proprio come accade in occasione del qui recensito “The rise of brutality”, e che purtroppo inducono assai poco al riascolto. Poca longevità dunque, neo che affligge un altissimo numero di Metal-Core bands di quelle “straight to your face” (tanto per citare al contempo uno dei titoli di “The rise of brutality”) e che, al contrario di quanto succede a me, è però da ritenersi un difetto che farà la felicità di molti. Gli Slayer, tanto per nominarli nuovamente, hanno compresso in meno di trenta minuti tutta la bellezza di quel capolavoro chiamato “Reign in blood”. Tanti figliocci ci provano, con poca personalità e tanti mezzi secondari – di carattere tecnico o promozionale, non fa differenza – , e gli Hatebreed non sono di certo esclusi da questa categoria. Hardcore newyorkese gettato nel mezzo ad un calderone di reminiscenze slayerane, sin troppo esplicite, e che in brani come “Facing what consumes you” sfiorano il plagio con i pezzi più veloci di “Divine intervention” e “God hates us all” (quest’ ultima, ad esempio, mi ha ricordato molto i riff della fase centrale di “SS-3”), sia per i suoni, sia per lo stile chitarristico adottato. Poi un consueto e sterile cantato di marca Hardcore, tanti riferimenti ai Sepultura post – “Chaos A.D.” (con tanto di drummer i cui passaggi fanno riaffiorare esplicitamente lo stile di Igor Cavalera dei tempi di “Arise”), specie per quel che riguarda i loro brani più violenti dei nineties e talvolta persino dei tempi più recenti, ed il gioco è fatto, non fosse per quei pezzi ritmati, come “Live for this”, che nel loro piccolo contribuiscono a ‘salvare’ il disco. Descrizione che sembrerà inutile a tutti coloro che già conoscevano la band in questione, poichè dal passato prossimo ad oggi, di sostanziali passi in avanti non ne sono stati fatti. Dunque, ripeto: questo insistere sulle medesime coordinate farà felice tanta gente. Io mi chiamo fuori, e chiudo con una sufficienza che più politica di così non si può…