Facebreaker – Bloodred Hell

Esordio fresco fresco per i Facebreaker del cantante Robert Karlsson, front-man già conosciuto per aver militato negli ottimi Edge of sanity. L’assetto è semplice: siamo in Svezia, si prende una persona affermata per facilitare le cose con i contratti discografici, si tira su una band dal nome d’impatto e infine si cerca di suonare riprendendo un po’ qua un po’ là dai maestri del genere… ecco che viene fuori il death metal di “Bloodred hell”. Detto questo, non posso che esprimere la mia difficoltà nel recensire un lavoro dotato di buoni pezzi, diretto e ben suonato, ma che si limita a seguire talvolta ossessivamente il solco arato dai vari Dismember, Kataklysm, Entombed (nel loro periodo iniziale), Defleshed (anche se con il metronomo dimezzato), Grave e The forsaken. Le idee sono quindi quelle che sono, sta a voi decidere se mettervi dalla parte di coloro che conoscono già le band succitate e ne hanno fin sopra i capelli di roba in questo stile, oppure se schierarvi con gli amanti irriducibili delle sonorità in questione. In ogni caso, per quel che mi riguarda, la discontinuità all’interno di “Bloodred hell” si avverte grazie ad un alternarsi troppo frequente di buone song ad altre decisamente incolore, causa cui corrisponde lo spiacevole effetto di eccessiva prolissità. Tra le undici tracce stilate, i brani migliori prendono il nome di “Cursed” (valido il riffing ma non decolla quando dovrebbe), “Command of the dark” (solo per il ritornello), “Crushed” e “Bringer of death”, nessuno dei quali però identificabile come episodio riuscito appieno. Particolare che spero vivamente possa essere solo una banale coincidenza, inoltre, sta nella title-track: l’arpeggio iniziale è clamorosamente simile a “Burn in hell” dei Priest (in “Jugulator”), al quale si va ad aggiungere la somiglianza del titolo; ma non voglio pensare male… In definitiva “Bloodred hell” presenta il suo punto forte nei taglienti e spietati riff, in una produzione notevole e nella matura voce di Karlsson, attributi purtroppo schiacciati dalla banalità con cui sono strutturate le canzoni. Immaturità, questa, che va a formare un prodotto futile e colmo di stereotipi, difficile da buttare giù.