Ho sempre diffidato delle reunion, anche se non in toto. Ad esempio, dovendo tracciare un bilancio su tutti i come-back che avverranno nel 2004 in ambito Thrash, potrei ammettere di avere in serbo molta fiducia nei confronti di Death Angel e Nuclear Assault, di diffidare dei Dark Angel alla luce dell’ ascolto di un demo-tape reperibile in rete e, se proprio un anno fa qualcuno mi avesse chiesto di dire il nome della band dalla quale mi aspettavo un flop certo, la risposta, all’ epoca, sarebbe stata Exodus. E senza troppi indugi. Non tanto per il deludente – nonostante una formazione di lusso comprendente persino John Tempesta, alla batteria – “Force of habit”, col quale Holt e soci chiusero la loro carriera per quel che riguarda la realizzazione di dischi in studio, nè per altri motivi. Semplicemente, sensazioni. E così, mentre nel 2003 gli Overkill se ne sono usciti con l’ ennesimo disco di maniera della loro carriera, il 2004 comincia nel modo più trionfale quando, in data 2 febbraio, gli Exodus vanno celebrando il secondo anniversario dalla morte del compianto Paul Baloff, l’ugola incandescente del miracoloso “Bonded by blood”, capolavoro al quale la stramaggioranza dei fan della band ascrive tutti i meriti ad essa riservabili. Commettendo un grossissimo errore, visto l’indiscutibile valore dei successivi “Pleasures of the flesh”, articolato ed incompreso, e “Fabolous disaster”, una collezione di gemme dalla rara bellezza che dosa al meglio la potenza del Thrash di fine anni ’80, e la classe infinita di questa immensa formazione. Poi, dopo “Impact is imminent”, il buio. O meglio, due live album, un inutile e riempitivo best-of, ed una gradevole reunion che ha riportato Paul Baloff fra le file della sua vecchia band, seguita dalla sua improvvisa morte che, al contrario di come sembrava potesse accadere, non ha per niente decretato il decesso del combo di San Francisco. Anzi, quest’ ultimo è tornato in azione, con un cuore più pulsante che in passato, e con tante idee, alcune ripescate dal passato remoto (vedi “Impaler”, che ritroviamo in questo “Tempo of the damned”, e che risale agli albori compositivi degli Exodus, quando ancora Kirk Hammett dei Metallica era presente in line-up), altre totalmente inedite. E gli Exodus non si sono modernizzati, non hanno ceduto alla ingente pressione delle sonorità moderne che echeggiano lontano sin dal cuore della gelida Svezia, nè hanno proceduto mestamente col passo pesante che aveva fatto affondare lavori come “Force of habit”. “Tempo of the damned” è un capolavoro senza mezzi termini, va preso come tale ed analizzato senza fretta di giudizio alcuna: riprende il Thrash corposo di “Fabolous disaster”, lo arricchisce con il pesante apporto concessogli dalla voce di un ispiratissimo Steve “Zetro” Souza, e gli dona una maggior verve innescata da influenze che definirei provenienti nientemeno che dagli Overkill mediani. Quelli, nella fattispecie, con in formazione la coppia di asce Cannavino – Gant, che rese memorabile un capolavoro del Thrash novantiano quale è “Horrorscope”, ed al contempo anche quelli ammaliati dal risuonar di echi sabbathiani ammirabili già nella title-track del succitato lavoro, ma soprattutto in più recenti uscite discografiche come il sottovalutato “From the underground and below”. Alt! Con ciò non voglio assolutamente dire che gli Exodus attuali suonino simili agli Overkill: di questi ultimi rimane però il basso pulsante di Jack Gibson, le cui linee riportano all’attitudine furiosa del celebre D.D. Verni, e resta pure la pesantezza tout-court dei rispettivi lati strumentali. E se proprio vogliamo rischiare, non è del tutto fuoriluogo un paragone fra Souza ed Ellsworth, specie quando lo Zetro nazionale gioca più su linee vocali pulite e melodiche, anzichè imbattersi in a lui gradite escursioni nel grattato-sporco. Ma comunque vada, per Souza si tratterà sempre di scelte azzeccate. “Tempo of the damned” potrebbe rivelarsi il miglior disco di Thrash Metal americano fra quelli usciti dal 1991 ad oggi. All’ epoca erano “Time does not heal”, “Arise” e “Horrorscope”, rispettivamente di Dark Angel, Sepultura ed Overkill, ad infiammare i cuori dei numericamente scemanti supporters dello stile jeans ‘n’ shirt. Oggi, la scena non brilla di luce propria come allora, ed in tal senso ci si arrangia accettando con lodi spropositate release che ad inizio anni ’90 non sarebbero state mai e poi mai etichettate come ‘capolavori’, come è accaduto al forse sopravvalutato “The gathering” dei Testament (che, sottolineo, rimane un bellissimo disco). E “Tempo of the damned” giunge a noi come un’ autentica ventata di puro Thrash americano, con riferimenti ai Metallica del periodo ’86-’88, autocitazioni stilistiche verso i primi tre diamanti della discografia degli Exodus stessi, chitarre raffinate ed elaborate, ora di testamentiana memoria, ora sfocianti in un solismo slayerano efficace, tempestoso, coi ‘fischi’ caratteristici della coppia Hanneman – King, che stavolta porta i nomi di Rick Hunolt e Gary Holt, questi ultimi due autentici schiacciasassi, ma mai laceranti quanto la perfetta sezione ritmica leccata ad hoc dal potente drumming di Tom Hunting. Il tutto perfezionato da una produzione impeccabile, viva, che pare risalire ai primi anni novanta. Ma i pezzi sono quanto di più straordinario potesse venire alla luce: a partire dall’ opener “Scar spangled banner”, che tanto ho odiato nei primi ascolti salvo poi ricredermi alla luce di analisi più attente, per finire con i certi cavalli da battaglia “War is my shepherd”, “Impaler” (con pure ripartenze di Speed Metal ottantiano!) e “Shroud of urine”. Con “Blacklist” gli Exodus coniano il termine ‘Groove ‘n’ Thrash’, riportando alla luce le ritmiche cadenzate dei Metallica più ritmati, mentre la velocissima “Forward march”, “Culling the herd” (eccelsa la sua seconda metà, assolutamente di derivazione sabbathiana) e “Sealed with a fist” crescono mostruosamente in là con gli ascolti. E se la title-track e “Throwing down” sono autentici ‘contentini’ nei confronti dell’ esigenza di pezzi aggressivi, mai mancante fra gli attuali supporters del Thrash Metal, la scaletta di questo disco non presenta cali: tanta dinamicità, cambi di tempo, ritornelli memorabili, ed ogni cosa presente al suo posto. Più di così, penso non si potesse fare, anche se la mia paura resta questa semplice domanda: “questo stile piacerà ai metallers odierni, che tanto si saziano col derivativo Thrash degli At the Gates?”.