Dimmu Borgir – Death cult armageddon

In vista di quello che accompagnerà l’attesissima release del nuovo disco degli Iron maiden, “Dance of Death”, eccovi un altro, o sarebbe forse meglio dire ‘l’ennesimo’, speciale con recensioni multiple. Stavolta è il turno dei Dimmu Borgir e di “Death cult armageddon”, disco con il quale la band di Shagrath è stata chiamata alla prova del nove dopo il buono, ma anche fortunato “Puritanical euphoric misanthropia”. (Marco “Dark Mayhem” Belardi)

Recensione a cura di: Roberto “Omegastar” Lato

Sesta fatica in studio per i norvegesi, attesi al varco dopo la convincente prestazione fornita con il precedente “Puritanical Euphoric Misanthropia”, per uno dei dischi sicuramente piu attesi di questo 2003. Le premesse d’altronde ci sono tutte: formazione collaudatissima, un ampio budget a disposizione che ha permesso la collaborazione con l’Orchestra Filarmonica di Praga, un battage pubblicitario degno di vere e proprie rockstar. L’apertura, affidata ad “Allegiance”, lascia ben sperare: ad aprire le danze è un ritmo lento e marziale che poco dopo lascia il posto ad una violenta sfuriata, e sin dalle prime note si puo intuire che le coordinate stilistiche di “Death Cult Armageddon” non si discostano di molto da quelle del suo predecessore, accentuando anzi maggiormente, grazie all’ottimo contributo dell’Orchestra, la componente sinfonica del gruppo, che riesce ad esprimersi al suo meglio nella susseguente “Progenies Of The Great Apocalypse”, probabilmente il brano migliore del lotto, un’imponente cavalcata suggellata da un prezioso intervento alle clean vocals di Vortex, purtroppo utilizzato da questo punto di vista per l’ennesima volta con il contagocce, trasformando un potenziale asso nella manica in una mera e sporadica presenza. Dopo un tale avvio verrebbe quasi da gridare al capolavoro, ma siamo solo all’inizio, e purtroppo si cominciano ad avvertire alcuni scricchiolii nell’impalcatura del disco sin dalla terza canzone, “Lepers Among Us”, che risulta infatti solo a tratti convincente, e lo stesso si può dire per la successiva “Vredesbyrd”; è solo con “For The World To Dictate Our Death”, sicuramente d’impatto ma prevedibile, che si ha un salto qualitativo. La sesta traccia presenta ancora una volta un esperimento da parte del gruppo, cosi come era stato per “Puritania”: ma se in quest’ultima la band aveva flirtato con sonorita più industriali, in “Blood Hunger Doctrine” si assiste invece ad un’accattivante fusione tra le parti orchestrali e quelle del gruppo, per un risultato evocativo e maestoso ed in grado di risollevare le sorti del disco, anche se solo momentaneamente. I restanti pezzi, infatti, non riescono a risultare coinvolgenti quanto dovrebbero, ad eccezione di “Cataclysm Children” e “Unorthodox Manifesto” , che presentano al loro interno alcuni passaggi interessanti in grado di distinguerle dalle altre. Formalmente ineccepibile e impeccabilmente confezionato, “Death Cult Armageddon” si rivela sostanzialmente un mezzo passo falso compiuto dai Dimmu Borgir, alternando poche ottime canzoni, che da sole sono in grado di reggere tutto il lavoro, ad altre ben al di sotto della media compositiva a cui il sestetto ci ha abituato. Se vi accontentate di quella manciata di pezzi che fanno la differenza potreste comunque prenderlo in considerazione, ma “accontentarsi” è indubbiamente il termine giusto: da un gruppo come loro è lecito pretendere qualcosa di più.

Voto: 7

Roberto “Omegastar” Lato

Recensione a cura di: Marco “Dark Mayhem” Belardi

Ai Dimmu Borgir non si può certo chiedere sempre la Luna: il loro debutto risale infatti a ben otto anni fa, e da allora di giri di boa, ossia di dischi prodotti, ne sono stati messi in atto otto. Una produzione discografica all’anno, insomma, tenendo conto dell’ EP “Devil’s path” e dell’ inutile “Godless savage garden” che fu utilizzato come ‘ponte discografico’ fra il bell’ “Enthrone darkness triumphant” ed il discutibile “Spiritual black dimension”. In poche parole, i Dimmu Borgir hanno lavorato davvero tanto. Ma del resto, questa è cosa alla quale dobbiamo abituarci: su Nuclear Blast, anche i Dissection, paralizzati da tempo immemore dalla pena che Jon Nodtveidt sta scontando da anni, nel corso della loro ‘teorica’ pausa forzata hanno rilasciato un live album, materiale video, ristampe e quant’altro la succitata label potesse inventarsi per sfruttare economicamente il potenziale del nome di chi anni addietro produsse “The somberlain”. E come per tutte le band di punta delle principali etichette europee, tragicamente accade che prima o poi ci si dimentica di tanti valori fondamentali per un gruppo di musicisti e che si finisce per rompere il giocattolo a causa dell’elevata usura. Questo è accaduto ai Dimmu Borgir, a due anni di distanza dal buon “Puritanical euphoric misanthropia” che, se inizialmente sembrava dovesse inaugurare un nuovo ciclo interminabile di ottime produzioni in studio, fa ora riflettere tanto è il divario di qualità fra il lavoro del 2001 e quello che, sotto il titolo “Death cult armageddon”, mi ritrovo per le mani adesso. “Death cult armageddon” evolve il discorso stilistico intrapreso nel 2001, i cui primi vagiti erano però avvertibili già nelle produzioni post “Stormblast”: riferimenti al Black Metal melodico vanno a mescolarsi con una sostanziale presenza di Death/Thrash, con un sostegno imperante da parte di una vera e propria orchestra, ed una line-up che sembra il Real Madrid, complice la perdurante presenza di membri che nel loro passato vantano esperienze con Cradle of filth, Borknagar, Old man’s child. Inutile riferirsi alla produzione: per certi tratti è similissima a quella di “Puritanical euphoric misanthropia”, anzi maggiormente levigata, meno potente sulle chitarre, e con un peso ancor più accentuato per quel che riguarda la presenza volumistica delle parti di tastiera e per gli innesti, oramai frequentissimi, orchestrali. Poi voce pulita, del solito Vortex le cui corde vocali vibrano perfette e precise come il ticchettar d’un orologio svizzero. I presupposti per imbastire un’opera di pura perfezione, insomma. Ma non dimentichiamoci di una cosa: da che i Dimmu Borgir portano tale nome, i leader e mentori di questa formazione sono individuabili solo ed esclusivamente nei nomi tutelari di Shagrath (poli strumentista ora singer) e Silenoz. Dunque, cari miei, è inutile parlare di produzione coi controfiocchi, di Orchestre Filarmoniche assortite e tanto pompate da far rabbrividire gli autori di un certo “S&M”, di un Nicholas Barker che come al solito viaggia come una Ferrari e di disco maturo quando alla base di tutto è presente un songwriting poco ispirato, anzi vulnerabile, eccessivamente sterile. I tre-quattro grandi pezzi di cui “Puritanical euphoric misanthropia” poteva vantarsi non trovano in “Death cult armageddon” i relativi e logici successori, tantochè il lavoro in questione si rivela una ampia dimostrazione di stile e di sapienza, fatta da un gruppo di musicisti esperti a cui, tecnicamente, nulla si può rimproverare, ma anche un disco impotente, che non invoglia al riascolto e che, anche se il sottoscritto se lo sta bevendo a piccole dosi da un paio di mesetti circa, non riesce proprio ad emozionare o a proporre pezzi di rilievo. Ahimè. Un disco di maniera, elegante e maestoso, curato sino al parossismo nei più minimali e futili dettagli. Una sorta di gioiellino levigato e lavorato con sapienza, insomma, solo che è il gioiellino in sè a non avere un valore elevato, e non il lavoro che ne è conseguito. Per carità, la band ed il suo potenziale non sono di certo svaniti d’un colpo: “Progenies of the great apocalypse” vanta melodie orchestrali semplicemente fantastiche, e nonostante si trascini in avanti con fatica è pure ipotizzabile che si tratti persino del miglior brano del lotto. Idem per “Blood hunger doctrine”, l’episodio che contiene la più bella linea melodica di tutto il disco (andate agli 1:30 per credere) ma che in fondo non è di certo una “Mourning palace”. Poi ce n’è per tutti: “Allegiance” è una leccata pazzesca per chi vede la band come una traditrice della nera e violenta fiamma, si apre con un riff arioso e macchinoso quasi sulla scia dei Thorns e poi stanca l’ascoltatore nel suo non assai spontaneo incedere, “Lepers among us” riporta a galla il Thrash Metal tanto esposto nel precedente full lenght quanto su “Spiritual black dimension”, e “Vredesbyrd” si impegna per mettere un sigillo di qualità accettabile su un disco buono, ma non all’altezza di qualsiasi suo predecessore. “Death cult armageddon” è forse il peggior disco dei Dimmu Borgir, non osceno nei suoni come “Spiritual black dimension” ma, a differenza di quest’ultimo, sprovvisto di un vero e proprio brano di punta come nel prodotto del 1998 poteva ad esempio esserlo l’opener “Reptile”. A “Death cult armageddon” manca la continuità, non mancano invece episodi scarni ed inefficaci come la patetica “For the world to dictate our Death”, la conclusiva “Unorthodox manifesto” (che comunque dispone di un’ accelerazione supportata da un riff da manuale) o la più che insufficiente “Cataclysm children”, che sfoggia un Thrash stupendo in avvio ed un proseguo noioso e degno dei peggiori deja-vu compositivi del più mero e qualitativamente scarso Black Melodico dei nineties. Poi c’è uno Shagrath svociato, con delle corde vocali tali che viene da pensare che ci sia passato nel mezzo un treno merci, dei riff di chitarra anonimi e non esaltati da una produzione che sembra gridare “abbiamo pagato l’ Orchestra, ora dovete sentirla per forza” e delle song nel complesso non brutte, ma semplicemente anonime. Insomma: 3-4 linee melodiche da accademia, tanto manierismo e una produzione di quelle che solo i Re del mercato metallico possono permettersi. Se questo curriculum giustifica una spesa di 20 Euro circa (considerando che nell’edizione limitata la Nuclear Blast ci metterà sicuramente qualche spiacevole gadget ed una confezione di lusso), andate pure a comprarvi “Death cult armageddon”. Ma dopo un mesetto, quando sarete sul punto di rivenderlo su Ebay a un prezzo irrisorio, non rifatevela con me.