DGM – Hidden place

Mi è piaciuta questa quarta fatica discografica dei nostrani DGM (quinta se consideriamo anche il primo mini autoprodotto “Random Access Zone”), fatta di un prog metal di elevata fattura, che pur non risparmiando alcuni riferimenti a band più o meno note, riesce a risultare abbastanza fresco, godibile, interessante all’ascolto “da poltrona meditativa” ma mai troppo invadente ad apprezzarlo senza vivisezionare. E come fare a rimanere impassibili davanti alla grinta di una canzone come l’opener “A Day Without The Sun”, nell’attacco vocale della quale, novanta su cento, crederete di star ascoltando Russel Allen dei Symphony X anziché la generosissima ugola (che dal vivo non perde un colpo, posso giurarvelo) del bravissimo Titta Tani. Proprio i Symphony X, insieme agli immancabili Dream Theater, Fates Warning e ai spesso colpevolmente dimenticati Conception, paiono i riferimenti più vicini di “Hidden Place”: tecnica, sezioni strumentalmente ricercate, carica metal, melodia rock, stacchi vicini al jazz e atmosfere oniriche, “tastierose”, tutti ingredienti che condiscono un songwriting ispirato, che non riscriverà i parametri del genere, questo conviene specificarlo, ma che comunque potrebbe rappresentare un prodotto da tenere in considerazione. I motivi sono da ricercarsi in primis nel trittico d’apertura: la già citata “A Day Without The Sun”, la successiva “Save Me” e la title track. L’opener è da manuale, grintosa, carica, accattivante, che va dritta a rapire l’attenzione dell’ascoltatore, tenendolo incollato all’ascolto fino alla successiva “Save Me”, pezzo che concede invece più spazio alla melodia e al potere suggestivo che, se usata bene, sa creare. “Hidden Place” è un pezzo più riflessivo, intrigante, che convince a rimanere ancora lì seduti proseguendo l’ascolto. Ottimo Titta Tani, ottima la chitarra di Diego Reali, ma notevoli anche Fabio Sanges (tastiere), Andrea Arcangeli (basso) e Fabio Costantino (batteria). Non ci sono cali proseguendo nell’ascolto delle canzoni, semplicemente pezzi più stratificati, che richiedono qualche ascolto in più per essere metabolizzati. Parlo di “Alone” (ottima, non servirebbe aggiungere altro), semi-ballad cangiante, nella quale tornano vaghi echi dei Conception e delle interpretazioni di Khan soprattutto, che non risparmia guizzi di classe cristallina nei solos finali affidati alla chitarra del già citato Diego Reali. Parlo anche di “Heaven”, quest’ultima forse la canzone più intricata e, volendo, cervellotica del disco. Si rifanno sotto i Symphony X sulla power-oriented “Age Of The Flame” (sempre per merito di Titta Tani e la sorprendente vicinanza tra la sua timbrica e quella di Sir Allen) che non lesina nemmeno uno stacchetto jazz tutto da ascoltare. “Winter Breeze”, l’ultima traccia, un po’ la “The Edge Of Forever” dei DGM (quindi fate un po’ voi), nel finale fa introdurre gli ultimi interplay solistici tra chitarra e tastiere ad una specie di black-screaming (…) – curioso, no? Un album che si fa ascoltare dalla prima alla ultima traccia senza fatica né noia, che fa crescere la curiosità, fiduciosa, di vedere cosa riusciranno a combinare in futuro i DGM se sapranno definitivamente personalizzare i riferimenti ancora troppo ingombranti presenti nel loro sound.