Band multiforme, quella dei Deva Yena, formatasi nel 1998. I nostri, mostrando una mentalità nettamente aperta, ci presentano un mix fra power metal teutonico (a metà fra i Rage di “Black in mind” ed i Gamma ray più corposi, a’la “Sigh no more”) e sonorità prettamente rivolte al thrash. A questo si aggiunge il riuscito ed azzardato esperimento che vede il quintetto proporre due linee vocali, di cui una pulita ed a tratti accostabile al cantato Wagneriano, ed una seconda che vede Fabio Valentini, singer del combo, alle prese con scream vocals estreme e dal discreto impatto. La cosa più sorprendente espressa dalla band è la facilità con la quale essa svaria su più piani stilistici mantenendosi ben distante dal finire nello scontato e proponendo sempre un livello tecnico ottimale: il chitarrismo solistico di Nuccio Cafà, membro fondatore della band, espone un lavoro eccelso sui lead, una buona dose di assoli di livello ragguardevole, ma soprattutto, assieme alle ritmiche di Marega e Pasello ed al notevole drumming di Riccardo Padoan (eccezionale nel lavoro di cassa), crea un muro di suono ragguardevole, limitato in parte da un mixaggio non impeccabile. La creatività trova sfogo in cambi di tempo mai banali e sempre azzeccati, intrecci solistici veloci e talvolta influenzati da quanto prodotto da chitarristi connazionali quali l’ottimo Olaf Thorsen, ed il power metal espresso riesce sempre a sollevarsi da quanto suonato da imponenti masse di gruppi sin dall’esplosione del genere avvenuta nel periodo 1997-1998. Insomma, un gruppo che non bada ai trend, che sa suonare, e che sa dosare alla perfezione le componenti melodiche a quelle relative all’aggressività. Le tracce sono tutte e tre di ragguardevole livello, sebbene consideri la title track un gradino sotto le prime due (eccezionale “Glory to the unborn”), e fasi in mid tempos granitici lasciano vortiginosamente spazio a sfuriate power-thrash di tutto riguardo. Non aspettatevi l’ennesimo gruppo ultra melodico a’la Kalmah, Eternal tears of sorrow, Children of Bodom, in quanto qui le influenze che compaiono in prima linea derivano dalla scena teutonica, e dei virtuosismi spompati che dominano la scena nordica contemporanea non ce n’è traccia. Uniche note negative, una produzione che non riesce ad esaltare l’ottimo lavoro ritmico svolto, ed una certa situazione di disagio nella quale viene a trovarsi il singer Fabio Valentini nelle parti scream, non sempre espressive o ben riuscite. Ottimo, invece, l’esperimento attuato sull’inserimento di rari ma efficaci blast beat percussionistici, come avviene nella opener “The holy key”: