Nel cuore della Russia, precisamente a Mosca, la brava label britannica Rage Of Achilles Records (che ricordiamo già felicemente per i bei dischi di Mistress e Hatepulse) è andata a scovare questa band dal nome tedesco (…o almeno credo) per presentarne al mondo il debutto discografico. I Der Gerwelt condividono dei membri con i connazionali blackster Rossomahaar (recensiti dalla sottoscritta in questa sede) e si propongono come band black metal, ma di black hanno davvero ben poco. La copertina di “Human Breed” alludeva ad atmosfere nordiche e la bio allegata al cd citava influenze “from the late ’80 and early ’90 Norvegian black metal”, così che mi aspettavo di trovare un black grezzo e fortemente norse style. Invece la sostanza musicale contenuta in questo “Human Breed” è decisamente aliena alle sonorità citate, e anche piuttosto refrattaria ad essere etichettata. Si tratta comunque di un extreme metal costruito esclusivamente sugli strumenti classici del genere: chitarra, basso e batteria. Niente tastiere o intromissioni di altro genere dunque, ma trame strumentali abbastanza essenziali e semplici per una creatura estrema dai contorni poco definiti, che in pochi momenti si sbilancia propendendo per un black metal (di matrice svedese) di buona fattura, spesso si rilassa distendendosi su partiture lente e quasi doomish, ma per lo più si arresta su tempi andanti e cadenzati. In ogni caso quel che incattivisce il tutto è il vocione roco e piuttosto rozzo di Alex Duke, che sporca il tappeto strumentale senza concedersi alcuna pausa “clean”. Si inizia con “A shred of me I cannot reach”, song che si apre all’insegna del black svedese più ispirato, seminando speranza nell’ascoltatore, che però presto si ritroverà sommerso in partiture metal decisamente più pesanti e trascinate, strette parenti di un certo doom malinconico. In questo ambito è da citare la bella apertura melodica spesso ritornante in “Newborn world…”, ma, ahimè, ben poco di altro. Per carità, il disco è ottimamente prodotto e ben suonato, ma ciò che guasta un po’ il tutto è forse un’eccessiva staticità del songwriting, che si assesta su livelli discreti, ma sempre troppo e fastidiosamente “nella media”. Gli unici momenti degni di nota sono per l’appunto l’apertura dell’opener, le pause melodiche della citata “Newborn…” e la chiusura accelerata e blacky di “A bleeding path”. Per il resto “Human Breed” si ferma su livelli molto, troppo, medi per riuscire a tener desta l’attenzione di chi ascolta. Sarà la prolissità delle song (sei brani + intro per quaranta minuti), sarà la tonalità monocolore dei riff, sarà la voce che sembra ripetere in tutti i brani lo stesso ritornello… fatto sta che il cd in questione annoia. Una sufficienza stentata dunque, ma a malincuore perché le premesse c’erano e alcune belle intuizioni lasciavano presagire ben altro dai Der Gerwelt. Intuizioni che comunque potranno portare solo bene alla band in futuro.