Deep Purple – Bananas

Settembre generalmente segna la ripresa di qualsiasi attività, e ripresa migliore per il mio ‘sporco lavoro’ (forse perché la pelle a lungo andare puzza) di recensore non poteva essere migliore, grazie al ritorno quasi contemporaneo dei mostri sacri dell’ hard rock e del metal. Assieme a Iron Maiden e Meat Loaf, infatti, ecco tornare alla carica i padri del rock duro inglese, niente meno che gli storici Deep Purple. Smaltita ormai da tempo l’assenza del genio di Blackmore con uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione, gli autori di Smoke on the Water si sono trovati con un’ assenza pesantissima, quella di Jon Lord, il tastierista membro fondatore della più celebre realtà heavy d’oltremanica. Il buco creatosi con l’abbandono di Lord è stato riempito con un grandissimo session man come Don Airey (ex Cozy Powell’s hammer, Rainbow, Ozzy Osbourne, Whitesnake, Jethro Tull ed Electric Light Orchestra) che dal punto di vista tecnico non ha nulla da invidiare al celebre collega, ma dal punto di vista compositivo e storico è sicuramente inferiore per importanza, forse per il suo continuo girovagare. E’ necessario quindi notare che i Deep Purple dal punto di vista tecnico non hanno subito cambiamenti drastici, ma dal punto di vista ‘affettivo’ hanno perso un leader che li aveva portati a registrare un album con la London Symphony Orchestra e ad imbarcarsi per uno straordinario tour mondiale coadiuvati da orchestrali. I rimanenti membri storici hanno quindi deciso di puntare su un album di ottimo, ruvido e potente hard rock, cioè hanno deciso di marciare sul loro terreno preferito; scelta a mio modo di vedere azzeccata in quanto Bananas pur non possedendo la forza dei classici è un bell’album, scorrevolissimo dalla prima all’ultima nota e pieno di energia. Proprio l’energia sembra caratterizzare i Purple, che da questo punto di vista riescono ancora a mettere sotto numerose band di giovinastri scapestrati; ottima soprattutto la prova di Ian Gillan, che dopo l’operazione non riuscirà più a strillare ‘Child in time’ come era solito fare, ma riesce a cantare in modo pulitissimo con il suo magnifico timbro vocale. Grandissimi come sempre Roger Glover al basso e quel fenomeno di velocità che è l’occhialuto Ian Paice, mentre Morse come sempre offre una prova maiuscola; bravo, ma non c’erano dubbi, anche il nuovo innesto Don Airey. Il disco si apre con la rockeggiante House of Pain, che ricorda i riff sferraglianti dell’era Coverdale, una canzone scoppiettante e vitalizzante; bella anche la successiva Sun Goes Down, più pesante della precedente ma non per questo meno orecchiabile. Dopo un inizio energetico gli inglesi si lanciano in un magnifico lento, sul quale Gillan canta splendidamente, tanto da far venire la pelle d’oca, e Morse dimostra a pieno titolo di essere tra i migliori axeman in circolazione; in conclusione una canzone degna di affiancare Sometimes I Feel Like Screaming per la forza emotiva che riesce a trasmettere.
Il resto del disco vede anche qualche caduta di tono come Silver Tongue e I’ve got your number, a mio avviso poco efficaci e meno scoppiettanti rispetto alle altre. Bella invece Walk On con un feeling piuttosto inconsueto per la musica degli inglesi, e un’altra grande prova di Gillan, terremotante ai livelli di In Rock la title-track, bellissima e di una dolcezza unica la conclusiva ballad acustica Contact Lost, in cui Morse si scatena nuovamente, se tecnicamente il chitarrista non può essere assolutamente messo in discussione, quello che più colpisce in questo brano è il sentimento che Steve riesce a trasmettere, forte di una dolcezza di tocco unica e assolutamente inimitabile. Volendo tirare le somme, Bananas è un bell’album, scorrevolissimo, suonato come meglio non si potrebbe, un disco che dimostra che sul trono dell’hard rock si siedono ancora dei ‘vecchietti’ capaci di scuotere (to rock appunto) le platee mondiali e di far dimenare milioni di teste capellute. Il platter però non possiede una forza tale da far gridare al miracolo, anche perché Gillan e soci si sono attestati su un terreno molto battuto, facendolo però con il loro, inimitabile stile. Bella la prova del quasi sessantenne vocalist inglese, straordinario (non mi stancherò mai di ripeterlo) Steve Morse. Si sono sentiti molto di meno gli arrangiamenti orchestrali tipici dell’ultima era Lord, ma bisogna dare il tempo a Don Airey di mostrare tutto il suo potenziale compositivo in una realtà per lui nuova e importante, malgrado abbia militato in svariate band.