I Decapitated, in quattro capitoli ci hanno proposto quattro facce diverse. Sta a voi scegliere la preferita, e personalmente posso soltanto dire che il clamoroso valore artistico del debut “Winds of creation” non è stato ancora superato. Con pochi fronzoli e tanti brani spaccaossa, la band polacca si è presentata al pubblico a inizio millennio, per poi scadere nell’ autocelebrazione col successivo e malprodotto “Nihility” (pur dotato di genuine perle qual’era l’oramai classico “Spheres of madness”) e raggiungere un giusto bilanciamento fra violenza e tecnica in “The negation”. Del tutto certo che ci avrebbero riproposto qualcosa sulla medesima falsariga, mi ritrovo invece qui “Organic hallucinosis”, l’album più stravolgente della carriera dei non più giovanissimi deathster dell’ est. Covan degli Atrophia Red Sun sostituisce Sauron al microfono, e pur non trattandosi di un fuoriclasse la scelta si manifesta più che azzeccata: un taglio più Death-Core, distante dal growl e ben adatto per scatenare il groove di cui i sette brani di “Organic hallucinosis” dispongono. Stilisticamente ideale, lo ripeto, ma si poteva rimediare di meglio anche se si parla pur sempre di una band polacca, e dunque limitata in termini di ricerche e provini in larga scala. E poi i nuovi Decapitated sostituiscono i vecchi, musicalmente parlando, ed in maniera netta. La band prende in prestito il sound dei Meshuggah, ed eliminandone il fattore ipnotico e martellante causa del loro crollo negli ultimi e malriusciti platter, ne mantiene il ritmo, il tiro. Il risultato è un Death Metal che, di pari passo a quello mostrato nei precedenti tre full lenght, sfonda meno nell’ autocelebrazione tecnica e bada più al sodo, alla creazione di qualcosa che finora è stato messo su pentagramma solo in parte. All’ inizio sembra il solito minestrone di Metal moderno più Metal estremo, ma col passare degli ascolti le cose cambiano. “Post (?) organic” è una delle migliori canzoni scritte dai nostri per dinamismo e aggressività, “Visual delusion” farà contenti i vecchi fan con un assalto quasi totalmente a base di Brutal Death (dove la voce di Covan appare del tutto fuori contesto se non sui rallentamenti ritmici) e la coppia “A poem about an old prison”/”Invisible control” ci propone forse i migliori riff del disco. Capitolo riuscitissimo per una band che sentiva bisogno di cambiare e di non riciclarsi a oltranza. E quando un gruppo lo fa così presto, senza aver ancora sbagliato un album, significa che c’è della classe pura alle spalle. Ma ripeto, “Winds of creation”, tradizionale e sempliciotto rispetto a quant’è venuto dopo, rimane per il sottoscritto ancora su un altro pianeta.