Quando gli Hypocrisy, alcuni mesi fa, sono venuti allo scoperto con quel “Catch 22”, disco capace di far storcere il naso a coloro che non vedevano fattibile l’accoppiata fra death metal melodico e sonorità moderne e mainstream, credo che fossero in pochi a immaginare che ne sarebbe scaturita una irrefrenabile tempesta di releases. Dopo che gli In flames avevano letteralmente perso la testa nel mediocre “Clayman”, disco dal quale cercheranno di scrollarsi con l’imminente e modernista “Reroute to remain”, e dopo che il death metal svedese è giunto al non goder più di quella sorta di immunità diplomatica che i nomi di At the gates e Dark tranquillity parevano calamitargli attorno come si trattasse di un involucro, è bastato il nuovo disco dei Soilwork a rigettare il tutto in un turbine di indecisioni, dubbi e banalità. Il lavoro dei Soilwork, va ammesso, non mi ha entusiasmato neanche un po’, con quell’insipida accoppiata fra death svedese contenuto, basato su ritmiche mid-tempo e sezioni chitarristiche melodicissime, e ritornelli moderni, orecchiabili, melensi e privi di ogni sprazzo plausibile di aggresività. I loro cugini, a.k.a. Darkane, si erano mantenuti a distanza da certe sonorità anche al tempo in cui i Soilwork producevano l’appena sufficiente “A predator’s portrait”, ed ora hanno deciso di puntare a capofitto in quella direzione, assumendo la miscela dei Soilwork e mescolandola sapientemente a ciò che i Darkane hanno sfornato su “Rusted angel” e “Insanity”. Il risultato? Un autentico pastone. Blast-beats incessanti, passaggi thrashy dove il batterista Peter Wildoer riesuma passaggi percussionistici d’ottima fattura, un songwriting dinamico e mai stantio. Ma… Il gioco non funziona, assolutamente. La band esce terribilmente dal seminato, mettendo accanto fasi aggressive dove il singer Andreas Sydow dà il meglio di sè (celebre il duetto con Lawrence, vecchio cantante della band, sul pezzo “Chaos VS Order”) a ritornelli ai limiti del banale dove i Darkane cercano in tutte le maniere di risultare orecchiabili, easy listening, pur non scomponendo la loro ricetta. In poche parole, è come voler vendere della dinamite in larga scala. Risalta positivamente il chitarrismo di Malmstrom – peraltro leader della formazione – , autorevole nel solismo della opener “Innocence gone”, di chiara derivazione death-thrash, e mai posto in posizione di evidente clonazione nei confronti dei gioielli della scuola Swedish. Un lavoro personale, vario, potente, che cade nel tranello imboccato dall’ennesima band che cerca di fare il passo più lungo della gamba. Certi effetti di dualismo sono rischiosi, e pertanto vi consiglio di ripassare dal debut dei Darkane, “Rusted angel”, o sul suo potentissimo successore “Insanity”. Ai Darkane occorre una presa di posizione, non di certo uno sdoppiamento, gioco riuscito di certo meglio ai blackster Solefald od ai Satariel di “Phobos and Deimos”.