Cover:
|
Tracklisting:
|
1 – Buried dreams 2 – Carnal forge 3 – No love lost 4 – Heartwork 5 – Embodiment 6 – This mortal coil 7 – Arbeit Macht Fleisch 8 – Blind bleeding the blind 9 – Doctrinal expletives 10 – Certificate of Death |
|
Line-up:
|
Cenni compositivi:
|
Jeff Walker – vocals, bass Bill Steer – guitars Ken Owen – drums Michael Amott – guitars |
Tutte le musiche sono state interamente scritte dal duo Amott – Steer. I due hanno scritto assieme “Carnal forge”, “Heartwork”, “This mortal coil”, “Doctrinal expletives”, “Embodiment” e “Certificate of Death”. Le restanti canzoni, invece, sono state interamente prodotte, in quanto a linee musicali, da Bill Steer. I testi del disco, d’altro canto, sono stati interamente scritti da Jeff Walker, bassista-cantante del quartetto. |
Produzione:
|
Il disco è stato registrato e mixato ai Parr Street studios fra il 18 maggio ed il 21 giugno del 1993. La produzione è stata affidata a Colin Richardson, mentre dietro al mixer troviamo Keith Andrews assistito dall’accoppiata Dave Buchanan – Andrea Wright. L’immagine posta in copertina, oramai celebre, è stata tratta da “Life support 1993” (H.R. Giger), mentre per quanto riguarda le foto interne al disco (da sottolineare che il booklet contenuto nella confezione del lavoro non segnala la presenza di alcuna foto dei membri della band) il lavoro è stato svolto da Jurg Kummer. I disegni sono stati affidati ad Andrew Tuohy. |
Introduzione:
|
Dopo aver parlato ampiamente di “Slaughter of the soul” (At the gates) proprio fra le righe di “Reinventing the steel”, dar cenni relativi ad “Heartwork” si rivela un’azione piuttosto dura. In effetti, se con il precedente articolo mi sono rifatto ai cambiamenti più recenti accaduti al death metal melodico, qua si torna alle origini di questa frazione stilistica, ovvero al periodo in cui un genere, quello del death metal, venne a fondersi nel culmine del suo successo a componenti melodiche non trascurabili e che, col passare degli anni, sarebbero divenute parte spesso fondamentale di esso. 1993: la decadenza del thrash era un dato di fatto. Le reminiscenze di quel genere che aveva messo a ferro e fuoco il mondo metallico nella seconda metà degli Eighties si sentivano ancora attraverso flebili correnti dettate perlopiù dai maghi Slayer, Megadeth e Testament (peraltro tutte quante band in netto calo rispetto al periodo d’oro trascorso sul finire del decennio conclusosi tre anni prima), e per il metal si prospettava un’era di decisioni importanti. C’è chi s’era gettato sul conservatorio, come i Manowar, trovatisi praticamente soli nella lotta – impossibile – contro il tanto divulgato grunge di Seattle, c’è chi, come Meshuggah o Strapping young lad, di lì a poco avrebbe dato vita ai primi rispettivi lavori. In poche parole, il 1993 è stato un anno particolarissimo, in cui il metal, se per certi versi pareva imboccare il sentiero del declino, da un’altra visuale appariva come una creatura ancor fiorente e capace, attraverso movimenti come quello del Post-thrash Fear factoriano, di generare del “nuovo”. In mezzo a tutto ciò, il Death metal appariva come il settore meglio posizionato e diramatosi: la scena brutale cresceva fiorente grazie agli influssi grind dettati anni prima da Carcass e Napalm death, ora dai Brutal truth di Lilker e Sharp, quella progressiva era dotata di una vena inesauribile a causa di nominativi pesanti come quelli di Death (ancora legati a componenti aggressive piuttosto esplicite), Atheist, Cynic (in quello stesso anno veniva composto il monumentale “Focus”), mentre sul fronte della globalizzazione Earache andava svolgendo un lavoro ordinario quanto struggente, accaparrandosi nomi di rilievo con una frequenza disumana. In mezzo a tutto ciò, grezzume, thrash metal riadattato e brutalità campeggiavano. In effetti, la scena di Tampa (Florida) risentiva tantissimo del sound Slayerano dei primi tre lavori, e se formazioni come quella degli Obituary s’erano imbattute in esperimenti Sabbathiani (vedi “The end complete”), a Morbid angel e malevolent creation fu spesso attribuita l’etichetta di manipolatori estremi del thrash metal estremo. Tuttavia, fra nomi e nomi, la scena Europea pareva un gradino sotto per qualità di releases, ma uno sopra per identità ed inventiva. I Napalm death si diressero sul grind per poi trattare, ad ogni album, lidi diversi, gli At the gates andavano crescendo in un mare di incertezze e dischi di buona fattura, ma i Carcass si presentarono come l’episodio lampante di tutto ciò. E di questo, ne parlerò in quanto segue. |
La storia:
|
I Carcass, come ho accennato poco sopra, manifestarono, fra il 1988 ed il 1996, una sequela di dischi sempre in avanti rispetto alla tabella di marcia – evoluzione dettata dai tempi. Se il binomio iniziale di “Reek of putrification” e “Symphonies of sickness” aveva messo in mostra un grind metal seminale, mal prodotto, ma allo stesso tempo mai sentito prima d’ora, i primissimi vagiti dei Carcass tecnici e maturi vennero fuori nel 1991, grazie alla release – storica – di “Necroticism…descanting the insalubrious”. Il lavoro, in effetti, era caratterizzato da testi splatter legati al mondo della medicina e della patogenia (non a caso, alcuni dei membri della band studiarono proprio in questo campo per poi laurearsi come chirurgi), influssi grind più o meno avvertibili, ma un songwriting decisamente più aperto, comprensibile, maturo, volto al death brutale ma contenuto in quanto a cambi di tempo, solistica, ed accessibilità. La svolta, in ogni modo, avvenne in concomitanza con l’uscita di “Heartwork”. 1993: i Carcass lasciano ogni residuo di grezzume legato alle precedenti produzioni, producono due videoclip (“No love lost”, “Heartwork”), s’imbattono nelle video-rotation di MTV, e cambiano totalmente la propria pelle. Per molti, il trionfo di un genere ancora in via di definizione, per altri, l’avvio verso il declino (la band si scioglierà dopo l’uscita del particolarissimo “Swansong”, a causa di divergenze manageriali, problemi contrattuali e di line-up). Bill Steer & co. seppero qui dar vita ad una confluizione fra death metal, riffs ispirati all’heavy metal, una solistica incredibile come solo mostri sacri quali Murphy, Masvidal e Schuldiner avevano saputo produrre in tale campo (sebbene Masvidal, allora leader dei Cynic, sia totalmente considerabile come una sorta di outsider rispetto alla wave puramente death), e song a cavallo fra freseggi catchy ed assimilabilissimi e sfuriate death/thrash con tanto di manifestazioni estreme all’insegna di blast-beats e vocalizzi graffianti (ineguagliabili, quelli prodotti da Walker). In poche parole, un grosso colpo, allo stesso tempo a favore e contro, schiantatosi sul mondo death metal. E pensare che, se gente come Euronymous già anni prima andava lamentandosi di scarsa malvagità legata al death metal, il fattore melodico, in “Heartwork”, trionfò definitivamente e su più linee di sbocco. |
Recensione:
|
“Heartwork” rappresenta tranquillamente uno dei dieci dischi più importanti del metal novantiano, sebbene, da parte mia e di molti altri, sia considerato “Necroticism” il lavoro più consistente – ma criptico – della band di Amott e Walker. “Heartwork”, però, possiede tutto ciò di cui i precedenti lavori dei Carcass non erano dotati: orecchiabilità, facile capacità di accessibilità da parte di ogni tipologia di ascoltatore, furia sonica controllata a tempo pieno e non solo a sprazzi (vedi le varie “Exhumed to consume” – “Impropagation”, presenti sui vecchi lavori del quartetto inglese in questione). Il disco di cui qui parlo, in effetti, ha dalla sua il vantaggio – peraltro enorme – di poter sfoggiare una tracklist varia, ben pensata(raffrontabile a “Season in the abyss” degli Slayer per il dosaggio fra song veloci e mid-tempos, in quanto il rapporto fra esse è di cinque a cinque) e composta da riconosciuti capolavori ancora ineguagliati per freschezza ideologica ed inventiva. Il death metal sound è mantenuto dalle chitarre ritmiche, alternate fra Amott e Steer, mentre ogni lead si esenta da esso, proponendo un calderone di suoni derivanti da ogni direzione pensabile (anche se siamo lontani dalla follia jazz-swing degli ultimi Atheist di Choy e Burkey). D’altro canto, il bagaglio tecnico della band appare qui in incremento esponenziale rispetto alle tre produzioni partorite dai Carcass fra il 1988 ed il 1991: Owen sfoggia partiture di batteria varie e tecniche, il duo chitarristico di Amott e Steer non richiede commenti, e Jeff Walker, nonostante siano totalmente seguite (o quasi) le ritmiche di chitarra da parte del suo prodotto bassistico, si rende ancora una volta capace di esprimere vocalizzi clamorosi, personali, ancora oggi – a tentativi vani – clonati da singer noti/e come la celebre Angela Gossow (Arch enemy). Il risultato è un disco praticamente perfetto, reo di aver suddiviso la folla fra i detrattori più legati al death tradizionale (se di tradizionalismo si poteva parlare nel corso dei primi anni novanta…) e una pletora di metallers sorpresi ed affascinati da ciò. |
Track by track:
|
Buried dreams – Pezzo decisamente anomalo: un’incedere lento, strano in quanto posto in avvio al disco, ma un insieme di melodie e riffs incredibili. Entrano nella storia come uno dei pezzi più importanti dei Carcass, è però ritenibile lievemente fuori posizione in scaletta. Caratura del pezzo: 9/10Carnal forge – Un’andatura ritmica decisamente veloce, primaria comparsa di blast beats e sfuriate percussionistiche varie. Tuttavia, “Carnal forge” si propone come una delle canzoni meno belle del lavoro, nonostante, se posta nella tracklist di una band death di medio valore, potrebbe farne la fortuna. Caratura del pezzo: 8/10 No love lost – Nuovo giro, nuovo capolavoro. Mid-tempo assassina, forse meno bella della celebre “Corporal jigsore quandary”, ma indubbiamente stupenda. Da essa è stato tratto il secondo videoclip dei Carcass. Heartwork – Forse la più bella canzone mai scritta dai Carcass: continui cambi di tempo, riffs storici, blast-beats, rallentamenti improvvisi. In questa song c’è di tutto e di più, e le generazioni di metallers legati ad MTV durante la metà degli anni novanta non avranno sicuramente mancato all’appuntamento col grandioso videoclip del pezzo. Embodiment – I toni calano, ed il risultato è una mid-tempo di buon valore ma inefficace se paragonata col resto del disco. Ottimo il lavoro strumentale, ma ciò non basta. This mortal coil – Il pezzo più veloce dell’intero lavoro. Blast-beats sparatissimi a’la Morbid angel introducono il pezzo, e repentini cambi di tempo lo affiancheranno maestosamente per tutta la sua durata. Per chi ha amato “Necroticism…” Arbeit Macht Fleisch – Intitolata con una discutibile sigla reperibile all’ingresso di alcuni campi di concentramento nazisti, “Arbeit Macht Fleisch” è in realtà una delle altre perle del lavoro. Sottovalutatissima dalla critica, la canzone, per varietà e struttura, presenta ottimali parti up-tempos e fraseggi chitarristici splendidi. Imperdibile. Blind bleeding the blind – Immenso capolavoro. Un’altra gemma messa in disparte dall’audience. Storico il riff d’apertura, ottimi i blast-beats di Owen, e perfetto il lavoro sulle chitarre. Altro episodio monumentale, curato da testi colmi d’ironia. Doctrinal expletives – Il pezzo meno interessante del lavoro. Qualche buono spunto, ma il suo livello qualitativo non si discosta poi tanto da quello di “Embodiment”. Buone le perforanti linee di doppia cassa prodotte da un Owen in ottima forma, validi alcuni fraseggi mid-tempos basati su riffs stoppati e continue alternanze con sezioni solistiche di tutto rispetto. Ma un grappolo di buone idee non bastano a glorificare una song come questa. Death certificate – Chiusura in grande da parte dei Carcass. Un lead chitarristico melodicissimo irrompe all’inizio del pezzo, portandogli una venatura insolita e particolarissima. La song procede graffiante e maestosa. Grandissimo episodio. |
Discografia della band:
|
Reek of putrification (1988) Symphonies of sickness (1989) Necroticism…descanting the insalubrious (1991) Heartwork (1993) Swansong (1996) Wake up and smell the Carcass (1997) |
Il post – “Slaughter of the soul”:
|
Precisare che dopo l’uscita di “Heartwork” il death metal non sarebbe stato più lo stesso è praticamente inutile. Ma andiamo con ordine: Michael Amott, in seguito all’uscita dai Carcass (il chitarrista in questione è stato rimpiazzato su “Swansong” dal discreto Carlo Regadas), ha dato luce, assieme al fratello, al progetto Arch enemy, formazione celebre che ha fatto la fortuna della Century media grazie a dischi come il recentissimo “Wages of sin” – lavoro peraltro sopravvalutato un po’ da tutti. Per gli altri membri dei Carcass, invece, il sentiero è stato decisamente più tortuoso. Jeff Walker e Ken Owen si sono imbattuti, assieme a Regadas, nell’avventura intitolata Black star (nome ripreso dal titolo di una ottima song presente in “Swansong”), formazione dalle tinte assai più rockeggianti rispetto a quanto svolto coi Carcass, ma allo stesso tempo non propriamente riconducibili al death n’roll di Carcass o Entombed. D’altro canto, Bill Steer è stato capace, assieme a musicisti del calibro di Leo Smee e Ludwig Witt, di generare i Firebird, inserendovi la melodia degli ultimissimi Carcass ed il rock a’la Thin Lizzy, oltre ad una miriade di ulteriori acquisizioni stilistiche. Ma prima dello scioglimento, la creatura dei Carcass ebbe molto altro da dire, attraverso l’ottimo “Swansong” (disco da me stesso odiato per diverso tempo, salvo una tardiva rivalutazione), dove death n’roll, suoni vagamente rimembranti lo stoner, ed una serie di mid-tempos laceranti crearono l’ultimo testimonial di una carriera, quella dei Carcass, che meriterebbe per intero di venir citata in questa rubrica. Incredibile il numero delle band che hanno preso ispirazione da essi negli anni a seguire: i Carnal forge ne hanno approfittato per dar un nome alla propria band, prendendo spunto proprio dal titolo di una delle song di “Heartwork”. D’altra parte, tutta la scena simil-death svedese è stata parzialmente attratta dalle sonorità scaturite da questo disco, e pochissimi anni dopo, peraltro, un lavoro come “Slaughter of the soul” mise a punto le coordinate di quello che, oggi, è riconosciuto come un sound completamente a parte del panorama metal mondiale: lo Swedish death. “Heartwork” sarà uno dei lavori più importanti degli anni novanta, ma non tralasciamo tutto ciò che, in precedenza ed a seguire, i Carcass hanno marchiato col loro spesso mutato ma inconfondibile sound. |