Il Boom del Death Melodico

Premessa

Quante band si potrebbero inserire all’interno dell’ area del grande cerchio del Death melodico? Sicuramente tantissime, forse troppe. Considerando il fatto che i Carcass nel 1993 se ne uscirono – giustamente – come degli innovatori quando misero in commercio il grande “Heartwork”, credo che oggi un disco del genere risulterebbe insopportabile per molti, perlomeno sul piano stilistico, anche se a partorirlo fossero gli stessi Walker, Steer e soci. Non posso dire con certezza che il Death melodico l’abbiano inventato loro, del resto anche quel platter è il frutto di un’evoluzione sonora che pesca ed attinge direttamente dall’ inizio degli anni novanta, ma bisogna tener conto del fatto che quel lavoro è sicuramente uno dei progenitori di una maniera di intendere il Death piuttosto insolita. Si, perchè oggi si etichetta come Death Metal un sacco di musica che, con tale filone, non ha nulla o quasi da spartire. Vedi gli In Flames, i Soilwork, e tanti altri. Oggi, tutti coloro che fanno uso di linee vocali non pulite e che non suonano Black Metal vengono misteriosamente classificati come Death metallers: non è un mistero che i Children of Bodom, formazione dedita ad una riproposizione particolare e vocalmente estrema del Power europeo, siano spesso ed a più riprese descritti come una Melodic Death Metal band. Ma è un errore, e non è il solo. Idem per gli In Flames, che su svariati album hanno fatto il verso agli Iron Maiden, ed idem anche per i Soilwork e per tutte quelle band che, di recente, strizzano occhiate ruffiane verso il mainstream accoppiando ritornelli catchy dalla facile assimilazione e distorsioni di stampo metallico (un po’ come hanno fatto, con risultati orribili, i modernissimi e scontati Mnemic). A questo punto, viene seriamente da domandarsi se la gente sappia che cos’è il Death Metal. Con alcune band che vendono persino i diritti delle loro canzoni a studiose di videogiochi, il che è il massimo del mainstream, i fan più fedeli hanno cominciato a chiedersi quali siano le intenzioni dei loro musicisti preferiti. È ancora possibile giocare a giochi con frammenti di death metal iconici, e forse anche con lo shock di molti giochi di casinò. Ottieni un grande valore offre da casinoblack.co e fai un tentativo; siamo sicuri che rimarrai sorpreso quanto noi. E questo articolo serve proprio a questo, a chiarire questa faccenda, a dimostrare quante band clone siano attive e ricoperte dal successo, ed a parlare di un fenomeno dall’ importanza assai elevata. Buona lettura a tutti.

Situazione svedese

Nomi come quelli di Entombed, Unleashed e Grave sono stati talmente importanti per la Svezia che si è parlato ben presto di scena nazionale Swedish Death. Tanto per intenderci, una scena nazionale ben definita come noi italiani non ne avremo mai una, se le cose continueranno così (un pizzico di auto-critica non guasta mai, no?). Poi le cose si sono evolute, soprattutto a causa del thrasheggiante “Slaughter of the soul” degli At the gates (di cui trovate un curato articolo nella rubrica “Extreme assault 2.0”, sezione “Reinventing the steel”), ed ecco che all’ interno dello Swedish Death la gente ha iniziato ad inserire di tutto, decisamente a sproposito, sbagliando anche dove era praticamente impossibile sbagliare. “Slaughter of the soul” è forse il caso meno lampante, quello su cui possiamo destare maggior tolleranza. Ad esempio, gli In flames, che su svariati dischi han fatto il verso persino agli Iron maiden, sono quasi all’unanime considerati come la più grande Swedish Death Metal band attualmente attiva. Ma perchè? Il problema principale forse è riscontrabile nelle linee vocali: in molti pensano che se una band adotta l’ uso dello stile Growl, la medesima formazione suonerà sicuramente Death Metal. Eh, no. Assolutamente no. Idem per lo scream: i Children of Bodom (finnici) fanno venir spesso fuori la parola Black Metal, e credo che il tutto nasca solamente dalle urla del leader Alexi Laiho, non da altro (qualche riff vagamente Black presente nelle demo e sul debut non giustifica tutto ciò). Se i Children of Bodom usassero unicamente linee vocali pulite, non credo che la gente faticherebbe a definirli come una Power Metal band, e così, se lo stile “musicale” – come la parola stessa fa intendere – va definito attraverso i contenuti della musica, non possiamo traviarne il significato solamente perchè il cantante attinge da altre correnti. Ciò è assurdo, insensato. Nello Swedish Death (o presunto tale) è normale che certi errori di valutazione vengano a galla: i Soilwork uniscono refrain devoti al mainstream americano a linee di chitarra distorte che non vanno oltre l’estremismo degli Spineshank, eppure quelle linee di cantato sporche bastano a farli classificare come una band Death. Ed ecco che gli Obituary o gli Unleashed si rivoltano nella tomba, con piena cognizione di causa! Mettiamo da parte i finnici – dato che poco fa ho citato Laiho e soci – e rimaniamo in Svezia (stilisticamente parlando, niente anagrafe, dunque): i Callenish Circle, che svedesi non sono, suonano un Metal di derivazione puramente svedese, ma si tratta di un Thrash melodico e moderno, infarcito di qualche riferimento all’ Heavy classico, ed arricchito da modernismo – nella produzione – e linee vocali estreme. Perchè, allora, i Callenish Circle suonerebbero Death? Idem per i Carnal forge, per i The Haunted, per i Raise Hell, e per tanti altri acts locali. Thrash Metal con cantato estremo e riferimenti melodici, spesso rivolti all’ Heavy classico. Ma perchè, allora, solo i Terror 2000 vengono all’unanime definiti come una Thrash Metal band? Chi lo sa…

Gothenburg sound

Ecco l’indiziato numero uno: il Gothenburg sound. Forse sarebbe stato meglio per tutti chiamare così lo Swedish Death, dati i dubbi che sorgono in me nel sentir definire quel genere di musica come Death Metal. Fattostà che il Gothenburg sound è dilagato, partendo dalla ferocia degli ultimi At the Gates, finendo nel 2000 per dare i natali a “Sindustries” dei Gardenian, uno dei lavori giunti in anticipo del trend che coinvolge linee vocali dalla svariata estrazione, occhiate di riguardo nei confronti del mainstream, e tanto altro ancora. Soilwork, per intendersi. Il Gothenburg sound racchiude in sè ciò che prescinde dal Death svedese della prima ondata: dimenticate dunque gli Unleashed, tenebrosi e puramente Death Metal oriented, e dimenticate pure i primi, romantici e cupi At the Gates (“Gardens of grief”). Il Gothenburg sound pesca nella melodia, anzi dalla melodia: assimila Iron Maiden, un Metal iperprodotto corposo e mai caratterizzato da suoni secchi e graffianti. Anzi, trattasi di suoni pieni, di pezzi sempre dipendenti dalla temuta forma canzone (vituperata da tutti, ma alla fine nessuno rinuncia al suo uso, anzi sopruso), di un Thrash che Thrash non è se osserviamo l’accezione ottantiana del genere, ma che lo è se, non sapendo dove sbattere la testa, dobbiamo trovare forzatamente un’etichetta per certe cose. Thrashers della nuova generazione, dunque, come se non bastassero i Post-Thrashers incalliti di inizio anni novanta, coloro che diedero vita e luce al fenomeno Nu Metal di oggi, lentamente, con incoscienza. Il Gothenburg sound, però, spesso quel Post-Thrash – Nu Metal lo abbraccia, in tempi non sospetti e più recenti: Soilwork in primis, gli Hypocrisy di “Catch 22” in secondo luogo (all’epoca di “Penetralia”, che gran realtà musicale si prevedeva stesse nascendo), dunque, cambiando paese, il Thrash/Death (?) melodico dei Lamb of God, i ruffiani 2 ton predator e tanti altri ancora. E perchè non i Raunchy di “Velvet noise”? Il Gothenburg sound è diventato una macchina da soldi, e le label europee se ne sono ampiamente accorte. E se i più maliziosi vedono persino Devin Townsend dietro al sound dei Satariel di “Phobos and Deimos”, a questo punto pare cosa certa: il Gothenburg sound non è più nulla di definito. Neanche vagamente. Si parte da una base, certo, ma alla fine quelle sonorità le abbiamo trovate ovunque, oppure cosparse da una miriade di cose. Guardate ad esempio i Passenger di Anders Friden (e pensare che un tempo eri nei Dark Tranquillity): c’è chi li definisce influenzati dal Dark, dalla Wave. Roba da pazzi (e del resto non hanno nulla da spartire con certe cose, anzi sono piuttosto una copia sbiadita degli ultimi e fallimentari In Flames). Poi i Dark Tranquillity, che ora pescano, tramite la voce di Stanne, dai Depeche Mode, per poi ritornare alla velocità degli esordi. Musica multiforme, ma pur sempre piatta e mossa da un filo conduttore che, sempre in trazione da quasi un decennio, presto si spezzerà.

Finlandia

Finlandia: terra del freddo e delle belle donne (perlomeno finchè non superano la trentina). Terra, anche, del Metallo. Almeno fino a qualche anno fa, la Finlandia era il paese su cui tutti scommettevano, Spinefarm (o Spikefarm) in primis. Children of Bodom, presunti innovatori di un qualcosa quando già da anni esistevano i Thy Serpent e gli Skyfire (ok, il debut di questi ultimi è uscito in seguito a “Something wild”, ma la band era attiva da anni e anni). Ma qualcosa, i Bodom, l’hanno davvero inventato, dal basso del loro semplicissimo Power Metal condito da un bagaglio tecnico non discutibile e dai taglienti scream vocals di Laiho, il tonno nella rete di chi se lo tiene stretto nei Sinergy. Cosa hanno inventato? Un trend: Kalmah, Norther, i nostrani Golem e persino gli Eternal tears of sorrow (che comunque agivano con maggiore personalità e potevano vantare molta più esperienza sulle spalle) hanno imparato a ruota da loro, finendo per sfornare dischi inconsistenti, vuoti. Persino i Neglected fields, dati per astri nascenti del Metal moderno, sono spariti in breve tempo. E intanto, mentre gli Ensiferum epicizzano il tutto con qualche ingrediente in più (o in meno), Spinefarm e le altre label investono a occhi chiusi su tutto ciò. La Finlandia è diventata di un piattume pazzesco: ora il cosiddetto Suicidal Metal, a base di ritornelli pacchiani, testi che citano lamette da barba e coltelli, ragazze facili e sex symbol maschili; ora gli Amorphis, unica isola felice in un territorio oramai minato, ora tutte le band clone dei Children of Bodom, che prontamente MetalManiacs stronca con parsimonia offrendovi qualche risparmio in più per il fine settimana (e magari in qualche pub vi siete pure divertiti! Donne?). Dimenticavo: perchè questa scena finnica a base di estratti di Bodom è stata inserita in questo articolo? Ma naturalmente: perchè c’è chi parla di Death Metal melodico anche per queste cose. Ma del resto, come non riscontrare i Malevolent creation, i Grave o gli Obituary nel sound dei Norther (spero che qualcuno non mi spedisca e-mail dopo aver intuito che dicevo sul serio)?

Cos’è il Death Metal?

A questo punto occorre fare un passo indietro, lasciando da parte la Finlandia, la Svezia, e tutti quei paesi dove le bionde di un metro e ottanta di statura sono all’ordine del marciapiede antistante la propria abitazione. Se proprio dobbiamo discernere Death americano e Death europeo, si verrà alla creazione di due poli. Uno dallo stile ben noto: deriva dal Thrash più tecnico di fine anni ottanta, vi aggiunge ampi riferimenti slayerani, tecnica (anche se non sempre, in origine), tecnica, tecnica, e suoni cupi, dovuti alle particolari accordature implementate ed alle produzioni di mostri sacri come Scott Burns, ed a tante altre cose. Death, Obituary, Malevolent creation, Morbid angel, per intenderci. E se in America l’approccio Hardcore arrivò leggermente in ritardo, vedi “World demise” degli Obituary stessi, in Europa ci si mosse in maniera sostanzialmente diversa. La ferocia dei Carcass, la furia Grind dei Napalm Death (in cui l’Hardcore era un termine noto), le reminiscenze americane dei Pestilence. In secondo piano, il nord, freddo nord. Unleashed, con toni vagamente slayerani su certe armonizzazioni tipiche della band, più avanti con un’epicità stravagante che avrebbe celebrato dischi come “Across the open sea” (tutt’altra cosa rispetto a cosa insinuano i Suidakra!); Entombed, con una voglia di sperimentare che farebbe paura ai Pestilence, ma con un tantino di tecnica in meno; Grave, grezzi ed eternamente dannati, tantochè non sarebbero mai riusciti a bissare la bellezza del debut album; Carnage, defunti per lasciar spazio ai quei Dismember che nessuno si fila nonostante la maestosità di dischi come “Like an everflowing stream”. Questo è Death Metal, e lo sono anche i primissimi At the Gates. Ma se per Swedish Death si prende in riferimento “Slaughter of the soul”, la gente dovrebbe anche ricordarsi che quel disco non è un disco Death.

Death melodico

Si potrebbero considerare appartenenti al Death melodico dischi come “Symbolic” dei Death: osservate la sua struttura. Decisamente più semplice e meno tecnico di “Individual thought patterns”, più incentrato sulla riproposizione di parti melodiche che sull’ estremizzazione tecnica delle basi già erette su “Human”, e per lunghi tratti lento (“Empty words” e “Zero tolerance” sono due monumenti assoluti, in tal senso). Quello è Death Metal melodico, in fondo. Ma soprattutto, è Death Metal. E non parlo di lentezza: dischi come “The end complete” e “World demise” degli Obituary non sono per nulla incentrati sull’immissione in primo piano delle linee melodiche, tranne che in occasione dei ben congegnati assoli di West e di qualche altro particolare. I Death, in fondo, sono stati una Melodic Death Metal band. Almeno su un disco (mi rifiuto di considerare “The sound of perseverance” un disco Death). Oppure i Carcass, oltre l’oceano – sulla sponda europea, naturalmente – rispetto a Schuldiner (R.I.P.) e soci, ed ugualmente Melodic Deathsters su un platter solo, ossia “Heartwork” del 1993. Per molti, il primo disco di Death Metal melodico mai uscito in circolazione. E se “The red in the sky is ours” degli svedesi At the Gates vide la luce nel 1991 (quando i Carcass rispondevano con “Necroticism – Descanting the insalubrious”), preciso che comunque, atmosfere e malinconia a parte, quel disco tecnicamente non dispone dei medesimi mezzi che, per Death o Carcass dei succitati lavori, significano Death Metal melodico. Gli At the Gates, in fondo, il Death Metal melodico l’hanno forse suonato su “Terminal spirit disease” del 1994, ma se definiamo il genere stando al suo significato letterale, e non alla consistenza del filone “Gothenburg sound”, che nel 90% dei casi non propone Death Metal bands, Bjorler e soci ne rimangono decisamente fuori. Idem per i Dark Tranquillity, con una sola differenza: loro, il Death Melodico l’hanno suonato nel 1995 in “The gallery” (insistendo poi in una maniera più pesante e diretta nel controverso “The mind’s I” del 1997). “Skydancer” era troppo pesante, veloce, a tratti amelodico e mal prodotto per potersi inserire in tal filone, e pur essendo uscito nel 1993 mi riferirò a “Heartwork” se dovrò parlare ancora di “primo disco di “Melodic Death Metal”.

In conclusione…

Anche se siamo neanche a metà articolo, tiro in ballo il termine “in conclusione”: possiamo dunque definire i vari Raise Hell (debut escluso, in quanto piuttosto orientato verso sonorità un po’ più grezze rispetto a quelle dei Dissection di “Storm of light’s bane”), The Haunted, Carnal forge, Callenish circle o Hatesphere come Thrash Metal band appartenenti ad un filone Thrash assai scarsamente dipendente dagli Eighties, se non per derivazione alla lontana. Un Thrash melodico e tecnico, a cui si aggiungono vocalizzi growl o scream conditi da soventi inserti in clean vocals style, inserti sempre più frequenti man mano che ci si avvicina ai primi anni del nuovo millennio, a partire dai quali la “moda” della melodicizzazione estrema del settore è esplosa definitivamente, vedi Soilwork del post – “A predator’s portrait” (disco in questione incluso). Il termine Death deduco venga preso in prestito – ingiustamente – a causa della presenza di vocalizzi estremi e non canonici per il Thrash Metal: del resto, sentire parlare di Death/Black quando si tirano in ballo i Children of Bodom è una cosa che assicura che in giro, in effetti, le etichette vengono usate con criteri approssimativi. Considerando Death/Blackster i Children of Bodom, gli Aeternus si rivolterebbero nella tomba con ampia cognizione di causa! Non so però se sia corretto definire questo anomalo Thrash Metal tramite l’etichetta Post-Thrash: ci si scontrerebbe col sound di Dearly Beheaded, Fear Factory e Machine Head dei primi due dischi, finendo per parlare di Post-Thrash in occasione di troppe correnti stilistiche ben distinte fra loro.

Le vendite ed il boom

Torniamo indietro, per la precisione al titolo di questo articolo: perchè il Death melodico (anzi, ciò che così viene definito) vende così tanto? Forse a causa di strascichi provenienti direttamente dal periodo 1990-1993, quando il Death era così vivo e vegeto dal punto di vista commerciale da resistere, grazie ad una più che discreta autonomia, fino al 1997 circa nelle rotation dei programmi Metal di MTV. Alcuni di voi ricorderanno che, su programmi come Headbangers balls o Superock (era J. Valet), era frequente la programmazione di video di Gorefest, Cannibal Corpse o Obituary. Almeno fino al 1997 circa. E chi non ricorda il video di “Blinded by fear” degli At the Gates, che da solo ottenne in quegli anni un successo che le altre band del settore, sommando assieme quanto riscosso tramite videoclip, magari neppure potevano sperare di raggiungere? Forse solo il videoclip di “Facelift” (o quello di “Spit it or swallow”) dei Konkhra (danesi) raggiunse all’epoca un successo pari (e francamente devo capire dove stanno tutti i meriti dei Konkhra, che a mio parere hanno inciso un solo disco dal valore non contestabile, appunto, “Spit it or swallow”). Insomma: se il Death Metal ha avuto un boom commerciale così ampio a inizio anni novanta (segno che il popolo metallico era felice di respirare aria nuova, dopo un decennio in cui il verbo imperativo corrispondeva all’ascolto di Heavy Metal e Thrash Metal), credo sia naturale che, melodicizzando il genere ed accostandolo quasi del tutto a lidi Thrash che dal Death prendono in prestito lo stile di certi vocalizzi (un appetibile, anzi digeribile scream al posto del cavernoso growl style), si sia verificato un boom di tali dimensioni. Una sorta di seconda ondata commerciale Death, insomma: se il Death puro aveva venduto tanto circa 10-13 anni fa, questo ibrido attuale è forse da meno, ma solo in termini di qualità e per il fatto che il mercato Metal americano soffre da tempo. Il fattore “produzione” è anch’esso importante: oggi la gente adora le produzioni cristalline di questo periodo (Finnvox docet!), e di conseguenza è naturale che un Thrash dai connotati ingannevolmente Death Metal oriented e ben prodotto “tiri” più del Death sporco e violento di dieci anni fa, derivante a sua volta dal Thrash più estremo degli anni ottanta (Pestilence), spesso più tecnico (Solstice, Atheist, Death). Una piccola frecciata: cosa ci trovate un produzioni dominate dalla triggerizzazione e da inserti di drum machine, quando nel 1993 un certo Sean Reinert, incidendo “Focus” dei Cynic, ottenne uno dei suoni di batteria più belli di tutti i tempi (di Metal parlando) senza far troppo appoggio sulla tecnologia? Oggi, del resto, va di moda la musica preconfezionata ed iper prodotta: ma la resa dei conti si fa in sede live, e se chi su disco è praticamente perfetto (Darkane?), dal vivo rimedia figure pessime al cospetto dei “nonni” Death Angel (che poi quanto ad età sono ancora giovani), Slayer o chissà chi altri. Meditate su questo…

I fondamentali – Death melodico

Iniziamo col parlare non di stile, come sinora ho fatto, ma di band e di dischi. Facendo dunque nomi, recensioni, e distribuendo giudizi. Eccovi i fondamentali lavori per quel che riguarda alcune correnti che questo articolo ha tirato in ballo:

Hypocrisy – Abducted (1996)

Se i primi tre album degli Hypocrisy (quattro, contando l’ EP “Inferior devoties” del 1993) erano usciti all’insegna del death Metal più marcio e sporco, “Abducted” segnò la svolta stilistica definitiva per la band di Tagtgren e soci. Qualcuno rimpiange ancora il periodo con Masse Broberg alla voce, tuttavia “Abducted” è un incredibile album di Death Metal melodico, ora veloce (“Killing art”, “Point of no return”), ora lento e ossessivo (“Roswell 47”), quanto affascinante e incentrato su linee melodiche assai ben congegnate. Un Death anomalo e personale su cui la band, in futuro, insisterà sin troppo, fino ad arrivare allo scioglimento (1997, post “The final chapter”), alla reunion (1999, “Hypocrisy destroys Wacken”), ed al cambio repentino col moderno “Catch 22” che, in seguito, tirerò in ballo con occhio critico.

Death – Symbolic (1996)

Uno dei migliori manifesti del Death melodico: più lento e semplificato rispetto al predecessore “Individual thought patterns”, “Symbolic” verrà considerato da molti come il miglior disco dei Death, parere col quale giungo in contrasto ponendo dinanzi a questo platter, nell’ordine, perlomeno “Scream bloody gore” e “Human”. La formazione di “Symbolic” è un po’ più debole delle due precedenti: il basso di Kelly Conlon dei Monstrosity è per lunghi tratti inesistente, sprovvisto degli svisamenti a cui Steve DiGiorgio ci aveva abituato su “Individual thought patterns” (monumentale la parte finale di “The philosopher”, in tal senso). Bobby Koelble ben assiste Schuldiner chitarristicamente parlando, ma alla fine si sente l’assenza di una prima donna vera e propria, come lo erano stati, in tempi passati, Paul Masvidal (Cynic, Master, ora negli Aeon Spoke) ed il ‘King Diamond’ Andy LaRocque. “Symbolic” è immediato e profondo, eccessivamente atmosferico rispetto agli altri dischi dei Death, per certi versi riflessivo. La lentezza di “Zero tolerance” e “Empty words” si scontra coi riff quasi Power Metal di “Misanthrope” (una sorta di anticipazione delle influenze classiche poi apertamente mostrate su “The sound of perseverance” del 1998) e con la velocità della title-track. Un lavoro vario e destinato ad un largo raggio di ascoltatori: forse sarà questa l’arma vincente di “Symbolic”, un’arma di cui “Human”, ad esso superiore sul piano della qualità, non disponeva. E da qui, si capisce perchè quel lavoro, datato 1991, finisce tutt’oggi per affascinare solamente i principali aficionados del Death Metal floridiano.

Dark Tranquillity – The Gallery (1995)

Quant’è vario il Death melodico: dal sound Floridiano ma manipolato di “Symbolic”, si passa alle armonizzazioni tipiche dei Deathster Dark Tranquillity, band che lascerà poi il genere succitato con “Projector” del 1999. Melodia, melodia, melodia: ciò trasuda da questo disco, che ti inganna con la potentissima “Punish my heaven” posta in apertura al lotto, e che poi ti ammalia con pezzi lenti e trascinanti come la magica “Lethe”. E se “The emptiness from which I fed” è per me un capolavoro incompreso di rara bellezza, il disco mostra realmente poche cadute di tono, pur assestandosi su livelli qualitativi a mio giudizio inferiori rispetto a quelli del “Projector” di cui ho sopra accennato. “The Gallery” è un manifesto del Death melodico, proprio come “Symbolic”, e ne rappresenta una seconda visione: malinconica, triste come per i Death – liricamente parlando – di certi album, ma tecnicamente posta su un piano del tutto differente. Niente reminiscenze Thrash o Classic: solo una riedizione del Death svedese dei maestri di cui parlo in un capitolo sovrastante (e perchè non citare i riff di “Soulside journey” dei norvegesi, ed all’epoca del debut Deathster, Darkthrone?). Un capolavoro.

In flames – Lunar strain (1994)

Il più bel disco degli In flames. Il più potente, l’unico per il quale si può parlare di Death Metal svedese (assieme forse a “Subterranean”, EP uscito nel 1995 su Wrong again rec.), quello che più degli altri offre reminiscenze Folk, Metal estremo, ed un singer all’altezza. Un tale chiamato Mikael Stanne, che praticamente la band finì per scambiare con Anders Friden dei Dark Tranquillity (all’epoca “Skydancer”), rimettendoci non poco! Se gli Iron Maiden sono il leitmotiv portante di alcuni lavori postumi degli In Flames, e se i più recenti lavori sono affascinati dalle sonorità moderne americane che già hanno fatto innamorare Hypocrisy e Soilwork, qui si può per fortuna parlare di Death Metal, una corrente in cui chiunque finisce sempre per inserire gli In Flames anche quando si parla di “Whoracle” (personalizzazione del Gothenburg sound) o di “Colony”. Gran disco, imperdibile a dispetto di un successore, “The Jester race”, che personalmente trovo persino sopravvalutato.

Carcass – Heartwork (1993)

Procediamo a ritroso nel tempo: 1993. Carcass, dopo “Necroticism – Descanting the insalubrious”, e dopo il suo Death Metal marcio, tecnico e spesso ripescante nella melma Grind degli esordi, Steer e soci puntano sulla melodia. Così troviamo ciò che sta realmente alla base del Gothenburg sound: riff Heavy Metal (il riff della strofa di “Heartwork” sarà una vera Bibbia per gli Arch enemy dello stesso Michael Amott), ripartenze Death, riff Thrash. Un vero calderone, ed un disco impeccabile qualunque sia la traccia che si va ad analizzare. I curiosi, peraltro, potrebbero trovare interessante un mio articolo a riguardo presente in Extreme assault 2.0 (la rubrica), sezione “Reinventing the steel” (come per “Slaughter of the soul” degli At the Gates). Tecnica ed un ottimo gusto melodico si uniscono alla voce graffiante di Jeff Walker, che qualche anno dopo una certa Angela Gossow (appunto, degli Arch enemy) cercherà di clonare alla meglio. Disco estremamente consigliato.

Questi sono i fondamentali del Death Metal melodico: evito di citare in termini di recensione – per termini di importanza – il buon “Stigmata” degli Arch enemy, lavoro inseribile in questo filone in quanto ancora legato, in parte, agli stilemi Death già ostentati nel sottovalutato debut “Black earth”.

I fondamentali – Gothenburg sound (Thrash melodico)

At the Gates – Slaughter of the soul (1995)

“Nausea! Oh, sweet nausea!” La delirante voce di ‘Tompa’ Lindberg rende praticamente perfetta questa gemma del Thrash novantiano, un lavoro in cui sono individuabili vaghe tracce di Death Metal proprio nel suono delle chitarre di Bjorler e Larsson. Trattasi comunque di un disco Thrash, melodico ma più potente dei suoi predecessori Death Metal oriented, che pur mettendo in evidenza malinconia e tristezza in dosi letali anche per un membro dei My dying bride, offrivano la violenza e la rudività tipica del Death più per la produzione che tramite i fatti. “The red in the sky is ours” contiene si episodi molto potenti, così come gli altri lavori, ma “Slaughter of the soul” è comunque individuabile come il platter più movimentato dell’intera discografia della band fra i cui ranghi presenziò l’attuale batterista dei Cradle of Filth Adrian Erlandsson (da non confondere con Daniel, degli Arch enemy, ed ex In flames, su “Subterranean”). In ogni caso, un disco piuttosto vicino allo status di Death svedese.

Soilwork – The chainheart machine (1999)

Nel 1999 si parlava dei Soilwork come se si trattasse della band che, più di tutte, meritava il diritto di ricevere il ruolo di “successore degli At the Gates”. Dopo due anni, “A predator’s portrait” ha smentito tutto, inaugurando una controtendenza che avrebbe portato di lì a poco i Soilwork ad ammorbidire il proprio sound, riempire i brani con parti di voce pulita, proporre refrain spesso triti e ritriti, come se fatti con lo stampo. Brutta cosa, considerando che nel 1999 un disco come “The chainheart machine” risultò tutt’altro che un’opera di riciclaggio: anzi, trattasi di un lavoro quasi degno dei migliori At the Gates, possente e ricco di brani lodevoli. Non un must, ma comunque un’opera da tenere di conto, anche se con le dovute considerazioni: certe cose, gli In flames dei pezzi più veloci (“Food for the Gods”?) le misero in atto già all’epoca di “Whoracle” (1997), già mostrando quel senso di avvicinamento al Thrash partendo dal Simil-Death di “Slaughter of the soul”

Arch enemy – Burning bridges (1999)

Come spesso accade, la qualità è inversamente proporzionata rispetto alla popolarità. Gli Arch enemy, dal debut, sono sempre stati in fase calante di disco in disco, pur rimanendo su buoni livelli perlomeno fino a questo “Burning bridges”, il disco che nel 1999 immortalò la band al top della condizione (tecnicamente parlando) e con Johan Liiva (Nonexist, Hearse) in formazione. Capolavori come “The immortal” o “Pilgrim” diverranno entro breve classici del Gothenburg sound, qui rivisitato ed infarcito con dosi di Heavy Metal classico e con molto Thrash Metal. Un discreto e possibile successore di quell’ “Heartwork” che tanto ha cambiato la vita al Metal europeo, facendo però più danni della temuta grandine!

In flames – Whoracle (1997)

Facendo coppia sia con “The Jester race”, sia con “Colony”, “Whoracle” si propone come il punto più interessante del periodo maggiormente Gothenburg-oriented della carriera degli In Flames: un Thrash ricco di spunti folkeggianti riconducibili alle medesime influenze presentate a inizio carriera, vocalizzi a cavallo fra growl e scream (con Friden al top della sua condizione), brani ora veloci (“Food for the Gods”), ora clamorosamente melodici e mid-tempos oriented come avviene in occasione di svariate tracce. “Whoracle” è sicuramente uno dei migliori dischi degli In Flames, non raggiunge certo la qualità di “Lunar strain”, ma incarna al meglio il periodo mediano di una carriera in cui il sopravvalutato “The Jester race” ed il discreto “Colony”, a mio avviso, non brillano in egual maniera.

Darkane – Rusted angel (1999)

Altro disco del 1999 (annata realmente prolifica per il settore di cui si parla): “Rusted angel”. Sicuramente il migliore dei Darkane, a dispetto di un “Insanity” troppo sbilanciato e di un “Expanding senses” ruffiano nei confronti delle medesime sonorità easy listening proposte in tempi recenti dai Soilwork. “Rusted angel” suona come un disco Thrash estremizzato sino all’inverosimile, incarna solo in parte il Gothenburg sound in quanto il suo songwriting gode di una certa libertà. Arma letale, questa, di cui i Darkane godranno solamente in occasione di questo debut album. In seguito, tanta violenza, poi tanta melodia, ma assai poca concretezza. Unico baluardo di una discografia sopravvalutata, ed ancora nutrita da soli tre platter.

I fondamentali – Nuove leve

Le nuove leve, generalmente, consistono nei secondi corsi stilistici intrapresi da band con alle spalle svariati anni di attività (trascorsi magari, come nel caso degli Hypocrisy, suonando altri stili): cito dunque alcuni dischi importanti, perlopiù suonati da band tutt’altro che giovani, e relativi a formazioni rinomate perlomeno quanto a popolarità.

Hypocrisy – Catch 22 (2002)

Tronfio, ruffiano: esattamente ciò che le label vogliono. Una produzione ipoteticamente potente, ritornelli melodici, puliti e facili da memorizzare, ma anche simili fra loro. Il peggior disco degli Hypocrisy, e non a caso la band ha già annunciato di voler uscire con un “The arrival” che segnerà un ritorno alle sonorità di “Abducted”. Che a Tagtgren siano fischiate le orecchie?

Soilwork – Figure number five (2003)

 Un disco semplicemente orrendo: identico al suo inconsistente predecessore “Natural born chaos”, questo platter non modifica di una sola virgola il sound dei Soilwork, mostrando quanto la band voglia adagiarsi su uno stile capace di rendere in termini di vendite. Occhiate nei confronti dei ritornelli puliti tipici del Nu Metal, chitarre ammorbidite. Nessuna traccia, praticamente, del Gothenburg sound sinora ostentato e acclamato a gran voce. Da lasciar perdere…

Satariel – Phobos and deimos (2002)

Ottima idea: unire influenze degli Strapping young lad di Devin Townsend al sound di Goteborg. Pessima idea: insistere più sulla seconda vena che sulla prima, relegando le reminiscenze townsendiane ai soli ritornelli, non a caso ricchi di cantato pulito e di melodia. Tuttavia un lavoro più che sufficiente, ascoltabile, godibile. Ma nulla di nuovo dal fronte occidentale…

The defaced – Karma in black (2003)

Forse meno bello del debut “Domination commence”, sicuramente più concreto sul piano stilistico. “Karma in black” significa Post-Thrash di inizio anni novanta (Machine head in primis, ma anche i Testament di “Low”) mescolato al Gothenburg sound. Un bell’esperimento, un disco che però è tutto tranne che un capolavoro. Da provare.

The haunted – The haunted (1998)

I The haunted, partiti con tre quinti della formazione degli ultimi At the Gates, sono forse una delle band più sopravvalutate di sempre in ambito Metal. Tuttavia, ciò che avevano da dire l’hanno espresso a grandi linee nel debut omonimo del 1998, disco che mise alla luce grandi idee, un ottimo singer come Peter Dolving e reminiscenze a’la Pantera. Gran disco: peccato che la band non si sia mai ripetuta, accontentandosi, in futuro, di suonare un semplice Thrash moderno, potente e melodico, basato sul Gothenburg style di cui sopra tanto ho parlato.

I fondamentali – Old school Swedish Death

Dismember – Like an everflowing stream (1991)

Quando il Death Metal si avviava verso un processo di estremizzazione, sia in termini di violenza, sia in termini di tecnica, i Dismember resero il tutto dannatamente minimale debuttando con questo “Like an everflowing stream”, disco che raccoglie le ceneri dei Carnage proponendo una line-up che include tre membri della succitata, e defunta, band. Zero tecnica: una autentica mazzata sulla faccia che spazza via tutte le uscite melodiche odierne, appetibili per grandi e piccini. Assolutamente da avere, ma forse non il miglior disco Old school Swedish Death di sempre.

Entombed – Left hand path (1990)

Ex Nihilist, gli Entombed sono considerabili di diritto fra i primi movers del filone Death svedese. “Left hand path”, miglior disco del periodo Death terminato con lo sperimentale “To ride, shoot straight and speak the truth” del 1997 (ne ricorderete forse la celebre “Wreckage”), è una delle perle assolute dell’intero movimento: una pochezza tecnica enaudita, tanti cambi di tempo e velocità, ed una voce cavernosa che mai Petrov ripeterà in futuro con tanta intensità.

Grave – Into the grave (1991)

Un lavoro insuperabile per gli stessi Grave, che mai si ripeteranno su certi livelli qualitativi: dischi scialbi come “Soulless” o “Hating life” porteranno la band allo scioglimento, e la reunion, materializzatasi assieme a “Back from the grave”, confermerà che l’unico tassello della discografia dei Grave rimane il debut del 1991, “Into the grave”, un Death Metal album grezzo e diretto, sporco e assai sottovalutato. Da tenere in considerazione…

Da citare anche:

Carnage – Dark recollections (con tre membri dei Dismember)

Darkthrone – Soulside journey (norvegesi, unico loro disco Death assieme a “Goatlord”)

Unleashed – Where no life dwells (gran disco assieme a “Shadows in the deep” e “Across the open sea”)

Meteore e delusioni

Se gli At the Gates rimarranno sempre nella testa di tutti, anche realizzando uno squallido reunion come-back, ci sono band che, spesso osannate in occasione di qualche release, non lasceranno mai il segno (o che lo hanno fatto mettendo però in disparte, magari in occasione di lavori più recenti, la qualità). Scopriamole:

2 ton predator – Osceni, in “Demon dealer” l’ennesimo tentativo di tirar fuori quello “Slaughter of the soul” del 2000 che mai vedremo. Perlomeno, si spera.

Callenish circle – “Flesh power dominion” e “My passion, your pain”, due lavori usciti in rapida successione, mostrano con una certa eloquenza l’inconsistenza di idee di questa band. Vivi solo grazie ad un fortunoso contratto su Metal Blade.

Carnal forge – Partiti bene e con brutalità, questi si ritrovano – ora – a clonare le ruffiane incursioni catchy di tanti colleghi blasonati: ne è prova l’orrendo “The more you suffer”, e siamo ben lungi dai tempi di “Firedemon”.

Catamenia – Teoricamente una Black Metal band cresciuta copiando i Dimmu Borgir, ora un act capace di mettere nel mezzo persino il sound di Children of Bodom e Kalmah e, dato che queste cose vendono, ecco il contratto su Massacre. Da evitare, specialmente su “Chaosborn”.

Children of Bodom – Chi si ricorda i primi due dischi di questa osannatissima Power Metal band? Tutti, direi. Tranne Laiho, già in crisi di idee al quarto platter senza contare le prove con Sinergy e Impaled Nazarene. Che tutto questo lavoro l’abbia stressato?

Corporation 187 – Semplicemente penosi: partiti come cover band degli Slayer, i Corporation 187 potevano rimanere tali! Il ruffiano “Perfection in pain” ne è prova. Anch’essi cloni dei The haunted, gli ultimi The haunted, per giunta.

Darkane – Come i Carnal forge, ottima partenza e brusca frenata. “Expanding senses” strizza l’occhio a tutto ciò che fa mercato, e Nuclear Blast ringrazia sentitamente. Peccato: a sentirli su “Rusted angel” non c’era da pronosticare una simile fine.

Darkest hour – Nessun tributo a Mustaine: semplicemente una band americana che fa il verso agli At the Gates e che, su “So sedated, so secure”, ha anche messo in mostra i numeri giusti per esplodere. Poi, il brusco stop col brutto “Hidden hands of a sadist nation”.

Dimension zero – Supergruppo con membri di Marduk (l’ex singer) e In flames: ovviamente, tante belle parole e pochi frutti da raccogliere. Formazione ingenua ed alla quale i musicisti coinvolti in essa possono dedicare assai poco tempo.

Divine souls – Fanno penosamente il verso agli In flames di metà carriera, e incredibilmente hanno anche un buon seguito. Incomprensibile il loro successo.

Dysanchely – Pessima band slovena già recensita su questo sito da Matteo Buti, consultate pure la sua recensione per maggiori delucidazioni a riguardo.

Final breath – La nuova essenza della nuova scena Thrash tedesca: roba da far mettere le mani nei capelli a Destruction, Assassin e Sodom. Se la nuova scena è questa, possiamo chiudere i battenti in anticipo!

Hatesphere – Sull’italiana Scarlet, un gioiellino Swedish style oriented che fa il verso ai The haunted ed a tanti altri. Ennesima band inconsistente e sopravvalutata all’unisono.

Hearse – Una versione alternativa degli In flames, con distorsioni più pesanti e con un certo Johan Liiva, ex Arch enemy, alla voce. Nulla di importante, in ogni caso, specie considerando la qualità del loro “Dominion reptilian”.

In flames – Finiti penosamente a fare il verso a certe band americane, gli In flames vantano comunque un passato illustre. Che dire del futuro? Giudicate da soli…

Inrage – Pessima band anch’essa sotto contratto su Scarlet: assolutamente evitabili, da lodare per la quasi totale assenza di ritmiche veloci, in favore di parti rocciose, mid-tempos ricchi di groove che però non coinvolgono a dovere.

Kalmah – Tre dischi quasi identici, solo uno più ruffiano dell’altro e in calando, col passare del tempo, sotto il piano della qualità. Una band che, dopo tre produzioni, è già alle corde. Sperando che Spinefarm li stenda…

Lamb of God – Oscena band post-Thrash influenzata sia dalle sonorità di inizio anni ’90, sia dal Thrash melodico svedese.

Mnemic – Meshuggah più Fear factory più Nu Metal e Swedish Thrash. Tutto quel che vende è concentrato nel sound degli Mnemic, che ovviamente figurano come una brutta copia di ogni stile riproposto.

Nail within – La prima band in assoluto che riesce a far produrre male un disco a Harris Johns (Kreator, Sodom, Voivod): Swedish Death dall’Israele, unica nota degna di riguardo.

Nightrage – Riecco Tompa, insieme al drummer dei The Haunted ed ex Invocator. Ed ecco l’ennesimo disco sullo stile del solito Gothenburg sound. Da evitare. E l’elemento a sorpresa qual’è? I blast-beats…

Norther – Due lavori osceni per l’ennesima band clone dei Children of Bodom peggiori. Con un pizzico di Heavy classico e di melodia in più, come se non bastasse già quello utilizzato da Laiho e soci.

No return – Francesi, ex Thrashers sulla vena dei vecchi Sepultura, oggi dentro all’elettronica e ad un Thrash melodico, tecnico, ed a tratti persino buono. Ma mancano ancora la personalità e le canzoni di spessore.

Ominous – Hardcore, Meshuggah, Swedish Thrash. Perlomeno ci provano, ma finiscono per annegare nella improponibile miscela da loro stessi tirata fuori.

Passenger – La nuova, evitabile band di Anders Friden: secondo loro, “influenze dark-wave”, secondo noi, una copia sbiadita degli ultimi e già di per sè non eccelsi In flames.

Raise Hell – Sulla scia dei Dissection nel primo disco, plagiati dalla Nuclear Blast in occasione dei due successivi come-back, ruffianamente devoti ad un Thrash che loro chiamano americano ed ottantiano, ma che comunque risente del solito, trito e ritrito materiale svedese.

Raunchy – La solita sbobba modernizzata all’ennesima potenza: ma il gioco funziona abbastanza, anche se il disco “Velvet noise” è un po’ poco per consacrarli.

Satariel – Devin Townsend più Swedish Death, uguale Satariel. Non malaccio come esperimento, ma devono ancora crescere, e non poco.

Soilwork – Scontati ma validi i primi, tremendamente piatti e ruffiani gli ultimi. Una band da buttare, in tutto e per tutto, e preconfezionata dalla prima all’ultima nota.

Suidakra – Band tutt’altro che giovane, ma anche tutt’altro che matura: un Death melodico particolare, che si rifà a certe band epiche (Thyrfing, ad esempio) ma anche alla melodia dei Kalmah. Innocui.

Terror 2000 – Thrash Metal tecnico e veloce, buono il primo disco, mediocre il come-back. Tuttavia, una formazione lodevole anche se composta dai soliti volti noti (Ranta, ex Soilwork, sul debut, più il chitarrista dei Darkane).

The black Dahlia murder – Band americana, di Detroit: un Death/Thrash di stampo svedese decisamente più aggressivo e brutale rispetto ai canoni europei. Tuttavia, la solita solfa.

The crown – Esplosi sulla distanza col bel “Deathrace king” (ottimo disco che mai riceverà un poi un bis, neppure con “Possessed 13”), una delle band più prolifiche ed efficaci del settore. Peccato che gran parte della popolarità gli sia arrivata dall’innesto, seppur temporaneo, del solito Tompa in line-up.

The defaced – I Machine head dell’Europa, anche se tremila volte meno riusciti, con poca personalità, e con tanta voglia di plagiare la musica amata. Che peccato, ma le buone intenzioni, in teoria, almeno nel debut c’erano.

The forsaken – Altra band evitabile, anzi da evitare. Poca qualità, poche idee, ed il solito Thrash/Death melodico trito e ritrito. Nulla da dire, specie da parte loro.

La questione “pulizia”

Ritornando indietro fino al capitolo otto, si deduce che oggi il metallaro non può prescindere da una produzione cristallina, neppure in ambiti estremi. Partiamo da una band che di estremo ha poco, ma che di rimandi al Thrash ed al Death, specie sull’ultimo disco, ne ha ben molti: i Nevermore. “Enemies of reality”, a mio avviso un disco immenso, ha una produzione sporca soprattutto sui suoni degli strumenti a corde. La chitarra, in primissimo piano per quel che riguarda la volumistica, è impastata e lievemente confusa nei suoni (si, lievemente: se volete capire il significato del termine “molto confusa” risentitevi il debut dei Possessed!), e lo stesso discorso vale per la batteria. Insomma: suoni sporchi, un’assoluta controtendenza che, sia che provenga dal budget tagliato da Century media, sia che provenga da una scelta della band, è stata comunque messa in atto. Eppure gli amanti del Thrash e del Death, dinanzi ad un disco del genere (che ha in sè una componente Thrash ben accentuata) dovrebbero gioire: “Schizophrenia” dei Sepultura e “Scream bloody gore”, due parti della magnifica annata 1987, sono da molti – come me – acclamati come due capolavori assoluti del Metal estremo, e godono di una produzione sporca che, a dire il vero, aiuta molto quei due dischi. No, io “Hell awaits” o “Seven churches” non riuscirei ad immaginarmeli, con una produzione cristallina a’la Harris Johns dei tempi odierni (colui che produsse “Pleasure to kill” e che oggi, per stare al passo col degenerar dei tempi, produce i Nail Within in maniera assolutamente anonima). Insomma: oggi un disco come quello dei Nevermore fa storcere il naso a tutti perchè ha una produzione lievemente sporca. Cioè, detto in altre parole, i metallari, cultori della musica cattiva ed estrema, si lamentano di suoni cattivi ed estremi? No, dai. Non riesco a immaginare orde di Deathster che si lamentano all’unisono, invocando frasi come “mi hai spezzato un’unghia”, “la mia t-shirt degli Obituary ha una macchia”, “il suono del disco dei Mucupurulent è troppo sporco”. Eh, no! I tempi sono cambiati, degenerati. Se anni fa i Venom erano adorati a tal punto che i Bulldozer, sotto contratto per major, producevano male i dischi volutamente per far loro il verso, oggi, una band che suona Metal a cavallo fra il classico e l’estremo come quella dei Nevermore, viene snobbata quando cerca di estremizzare le proprie sonorità? E dove sono finiti i suoni vivi di batteria, quelli che drummer come quelli di Watchtower e Atheist scandivano ritmo dopo ritmo, incalzando di fila dieci colpi di rullante, uno con volumi e suoni diversi dagli altri per donar maggior pathos e sentimento alle rispettive linee di batteria? Oggi i colpi di rullante sono tutti quanti uguali su tutta la durata di un disco, che si tratti di rullate, che si tratti di colpi ben distaccati fra loro. Non fa differenza: si registra, si normalizza, si mettono filtri lungo tutta la traccia incisa, si effetta (o affetta?) il tutto, e la triggerizzazione fa a pezzi il suono. Suoni falsi, dunque. Non suoni partoriti da un batterista e dal suo strumento, bensì nati dal volere di chi gestisce quell’arnese infernale che è il computer, che a mio avviso a fine anni ottanta era usato con tanta diligenza che si arrivò a produzioni-capolavoro che oggi ci sognamo, vedi quelle di “Beneath the remains” o “Agent orange”, rispettivamente di Sepultura e Sodom. In definitiva, oggi al metallaro piace la musica preconfezionata, leccata con il personal computer e coi suoi potenti programmi (Pro tools?), ed un disco come “Consuming impulse” (Pestilence), uscendo sul mercato adesso, credo farebbe fatica ad entrare nei cuori dei Deathsters odierni. I tempi sono cambiati, ed io nutro un profondo senso di rammarico nei confronti di questa situazione. Parlando di Death Metal, ho sentito spesso dire da persone che si reputano Deathster che “Focus” dei Cynic avrebbe una produzione brutta, specialmente sulle chitarre. Idem per “Human” dei Death (deve essere colpa della presenza di Paul Masvidal… se fosse così, un writer di questo sito – Tiziano Righini? – potrebbe incazzarsi abbastanza), altro pilastro del Death Metal accusato di disporre di una produzione approssimativa quando ogni Deathster dell’epoca metterebbe la firma su suoni del genere. Le iperproduzioni del Power europeo hanno contagiato tutti: l’ Heavy Metal, il Black Metal (ormai frazionato come non mai), il Death e tutto il resto. Persino nel Thrash si stenta a ritrovare quel feeling aggressivo tipico dei dischi degli Eighties, e lavori come quello dei Guillottine faticano ad entrare sul mercato con prepotenza proprio a causa dei suoni e, fatemelo dire, anche perchè le band clone sono sopportate solamente nei generi che fanno tendenza (i Kalmah e i Norther vendono copiando i Children of Bodom, mentre i Guillottine rimangono nell’ombra producendo copie pur decenti di quel “Pleasure to kill” che ormai un po’ tutti conoscono e, spero, apprezzano). Insomma, la legge è ben chiara: o produci i dischi in una determinata maniera, o non vieni neppure preso in considerazione. Non tanto dalle label, mi riferisco piuttosto ai kids, sempre più intransigenti. Il Metallo non è più sporco e minaccioso, nemmeno quello che qualcuno si ostina a definire come estremo anche in occasione di buffonate come quelle recenti degli Arch Enemy, vedi il loro pastone di Heavy Metal estremizzato ed infarcito di riff Thrash (più refrain puliti a’la Soilwork, tanto per cambiare) che qualcuno definisce Death con tanta sicurezza solo perchè a cantare c’è una girl che sa copiare bene lo stile vocale di Jeff Walker!

I cloni

Esistono label il cui rooster dispone di molte band, e fra queste spesso e (mal)volentieri una percentuale fra il 15% ed il 25% è composta da band che suonano Death melodico (o ciò che solitamente viene spacciato per tale). Come se, a rigor di logica, Gothenburg fosse una città di 350 milioni di abitanti e la Bay Area fosse diventata Scandicci. Il Death melodico è ovunque: una quantità superiore al 20% delle band di Nuclear Blast e Century Media lo suonano, tutti puntano ad occhi chiusi sul suo fascino, più monetario che di derivazione in altri sensi concreta. Il tutto, fino all’assunzione di band squisitamente inutili, identiche a progenitori dal successo assicurato magari attivi sulla medesima etichetta. Ma cosa induce un metallaro ad acquistare i Divine souls? Nostalgia dei vecchi dischi degli In flames? Così come non mi meraviglierei se gli Iron maiden si sciogliessero e, di conseguenza, i Tierra Santa acquistassero importanza, non mi meraviglio adesso, osservando lo scempio che sta avvenendo in Svezia ma anche altrove. I The Haunted, tanto osannati ovunque, sono il trionfo dell’inutilità: buono il primo atto, anche se con tanti riferimenti ai Pantera, a partire da “The Haunted made me do it” poi la band si è spenta passando al riciclo delle idee che alcuni suoi membri già avevano messo in atto anni prima, negli At the Gates, puntando maggiormente sulla violenza ed eliminando quel senso malinconico che comunque, per brevi tratti, era avvertibile anche in “Slaughter of the soul”.

Per concludere

Per concludere direi che sarebbe l’ora di iniziare a obbligare le label a scegliere le uscite prioritarie in base alla qualità e non al pappone che la gente digerisce meglio. Si parla tanto di Metal in termini di realtà autonoma e ben lungi dal risultare un genere facilmente manovrabile e commerciabile, e non ci si accorge che sta avvenendo il contrario. Il Metal è monopolizzato, le uscite di qualità vengono meno anche per il fatto che le label maggiori, ossia quelle che possono valorizzarlo a livello commerciale, non assumono band buone ma band disposte a suonare ciò che poi verrà venduto con maggiore facilità. Non siamo molto distanti da quanto avviene nel Pop da classifica, con l’eccezione che il Metal, in qualità di genere commerciabile, è il cugino sfigato del Pop. Se non parte stessa, quella meno fortunata e vista con maggior sospetto (ed è forse proprio questo ‘sospetto’ a salvare il Metal dal totale monopolio da parte delle label) dai media, del Pop. Potrei continuare per ore domandandovi che senso ha il nuovo disco dei Rage (“Unity” col titolo cambiato e canzoni più brutte) o quello dei Dimmu Borgir (un arrosto incredibile di orchestrazioni e poche belle song), tuttavia la finirò qui (e voi credo che esulterete per questo!): lo Swedish Death, attualmente, è la mela marcia del Metal, ossia ciò che sta costringendo le grosse label, sempre più avide di soldi, a puntare su di esso rinunciando ad assumere – con un po’ di rischio – chi ha veramente talento. Ma non meravigliamoci: il Metal non sta di certo morendo (al contrario di quanto molti affermano, è sicuramente più ‘sano’ oggi rispetto a come lo era nel 1995), e anche negli anni ’80 chi suonava Heavy Metal o Thrash veniva coperto di contratti senza alcun criterio. Un saluto a tutti!

Marco “Dark Mayhem” Belardi

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